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  • Conferenza del 18 ottobre 2002

    LA  MEDICINA  PER  L'UOMO:
    ACCANIMENTO  TERAPEUTICO ?

    Prof. Umberto ACCETTELLA

    18 ottobre 2002

    La legge obbedirà alla propria natura e non alla volontà del legislatore,
    ed essa darà inevitabilmente i frutti che vi abbiamo seminato.

    G. K. Chesterton

    Nel discorso pronunciato in occasione della giornata commemorativa del quinto anniversario dell'enciclica Evangelium vitae (14 febbraio 2000), Giovanni Paolo II ha esortato una volta ancora a vincere quella "mentalità rinunciataria" che porta oggi a considerare ineluttabili, quasi socialmente necessarie, le leggi che attentano al diritto alla vita. Si situa in questo appello la nostra conferenza di stasera. Stare vicino alle persone gravemente ammalate significa anche aiutarle a vivere questa loro fase dell'esistenza con dignità.
    L'accanimento terapeutico non va confuso con l'eutanasia. Di fronte allo stato patologico del paziente, il medico è chiamato con le sue conoscenze di ordine scientifico acquisito e delle sue capacità umane di giungere a comprenderne non solo le cause debilitanti, partendo da valide ipotesi e proseguendo con un metodo del tipo induttivo o deduttivo, ma anche farsi un'idea dello stato d'animo del soggetto a cui sta rivolgendo la sua attenzione. Questi infatti è una unità dove i confini tra psiche, anima e corpo non è sempre possibile cogliere.
    Ne consegue che, oltre ad essere ben preparato, il medico deve possedere un'umanità non indifferente. Infatti, il medico sarà tanto più in grado di curare i suoi pazienti quanto più costruirà un rapporto umano con loro di stima e di fiducia. Va tenuto presente che il rapporto "medico – paziente" si basa sull'empatia, o meglio, sulla capacità del medico di calarsi nello stato d'animo del paziente e di dimostrargli vicinanza sul piano prettamente "umano". Le cure migliori possono essere prestate unicamente nel rispetto dei principi di beneficialità, autonomia, giustizia.
    Occorre, dunque, ricordare che il malato è, prima di ogni altra cosa, un uomo, con la propria dignità. Quindi, egli ha diritto di essere informato nel modo più adeguato riguardo tutte le possibilità di intervento sulla sua malattia. Così, egli potrà decidere di dare o meno il suo consenso alle soluzioni proposte dall'équipe medica.
    La professione medica ha come primo obiettivo il ripristino della salute del malato: "beneficialità" significa, infatti, giovare al paziente. Nello svolgimento della sua attività, un medico deve sempre chiedersi se quello che si propone di fare è effettivamente la cosa migliore per il paziente.
    Il medico potrà "giustificare" ogni sua decisione ed ogni suo comportamento soltanto se ha posto alla base della sua professione determinati principi e determinati valori. Vari aspetti problematici caratterizzano l'affascinante attività medica e proprio questi esortano il medico a costruirsi dei saldi valori morali cui fare appello tutte le volte che egli si troverà a prendere decisioni sulla sua condotta.
    Non si vuol dire che la preparazione scientifica e la professionalità non debbano avere la massima importanza (ci mancherebbe, visto che si ha a che fare con la salute della gente), ma che esse sono solo il mezzo per raggiungere un fine "più alto", che non è la semplice gratificazione personale, ma la tutela della vita e della salute di esseri umani.
    È necessario un approccio che tenga unito il "paradigma etico-clinico" il quale porta a "prendersi cura della vita e della salute nel rispetto della dignità del paziente".
    Come abbiamo già accennato, il punto di partenza deve essere sempre la valutazione corretta dei dati clinici, un approccio effettivamente corretto col paziente deve comportare sempre una valutazione di questi nella sua unicità e globalità, ovvero una considerazione della persona-malato, con il suo vissuto, le sue aspettative, i suoi timori, speranze ecc.
    Troppo spesso in nome di una ben non precisata "scienza medica" si ha la pretesa di trascurare lo specifico umano, finendo con l'identificare il paziente con la sua patologia operando una divisione dove vi è unità: "si cura la malattia e non il malato". Non si pretende "l'identificazione del medico con il malato" ma certamente, "la comprensione" e un certo coinvolgimento che, certo è impegnativo a livello personale, ma credo sia indispensabile se non vogliamo mandare al malato un segnale negativo di conferma.
    In una parola il paziente, con la sua personalità più o meno emotiva, deve essere al centro delle preoccupazioni del medico. Questa centralità della persona-malato, deve spingere a confrontare volta per volta i principi generali con la particolare esperienza del caso in questione. Non esiste una persona uguale ad un'altra e, perciò, non esisterà un paziente uguale all'altro (anche se la patologia è la stessa). Ecco perché bisogna sempre porsi la domanda: "qual è il trattamento terapeutico più appropriato nel caso in questione?".
    Si ritorna, quindi, alla necessità della valutazione olistica del paziente (o meglio della persona) ed alle problematiche insite nel rapporto medico-paziente stesso. Particolare attenzione andrà posta sull'informazione da dare al paziente circa le sue condizioni, la prognosi ecc.: è questo forse il punto centrale del discorso, cioè la capacità del medico di "coinvolgere" il paziente, di stabilire con esso un rapporto di fiducia che non sconfini nel "paternalismo", ma, al tempo stesso, sia rispettoso della sua autonomia. Da qui la necessità di un'informazione che sia il più chiara e semplice possibile, tale da permettere una "compartecipazione" del malato e la realizzazione di una vera collaborazione attiva, ovvero, l'accettazione e l'osservanza delle prescrizioni mediche da parte del malato: ancora una volta ritorna, quindi, la necessità di una valutazione globale del vissuto del paziente, importante per il buon fine di "un atteggiamento di complicità tra medico e paziente".
    Se tutto questo ha un senso, allora comporta una sorta di inversione nel rapporto tra medico e paziente, nel senso che, nella ricerca di questa "alleanza terapeutica", il medico non dovrà temere di "mettersi al livello del paziente", ma cercare di stabilire una simmetria finalizzata al buon esito della specifica terapia.
    È bene tener presente che nel rapporto "medico-paziente" si evidenzia una "asimmetria valoriale", perché se da una parte il medico mette in gioco la sua professionalità e la sua competenza, il paziente pone sul piatto della bilancia la sua salute e la sua vita, il che gli fa assumere, in un certo senso, un'importanza predominante nel rapporto.
    In questo ambito rientra lo spinoso argomento del "consenso informato" da parte del paziente ad un determinato trattamento e in particolare a qualche intervento chirurgico. Non si può non prendere atto che, molto spesso, nella realtà clinica, l'informazione che viene data è piuttosto approssimativa e sbrigativa tendente solo a parare conseguenze legali: in realtà bisogna prendere coscienza come dietro alla "firma sul pezzo di carta", ci sia tutto il complesso discorso etico cui ho già fatto cenno e, come questo, dovrebbe essere solo l'atto finale e consapevole di un percorso fatto insieme, dal paziente e dall'equipe sanitaria stessa.
    Bisogna infatti prendere atto che il lavoro in equipe deve portare tutte le componenti a partecipare all'alleanza terapeutica, al fine di raggiungere il bene del paziente: ciò implica il dialogo come elemento fondamentale; nessuno può avere la pretesa di possedere la "verità", soprattutto in campo medico, e ciascuno deve essere pronto ad accettare il confronto ed a rispettare le diverse sensibilità professionali ed umane. Solo così è possibile, infatti, valutare tutti gli aspetti, clinici ed etici, che un caso comporta.
    Bisogna inevitabilmente, nella pratica clinica, affrontare il tema delicato dell'eutanasia oltre dell'accanimento terapeutico. Il confronto sicuramente fa emergere i diversi e interessanti spunti di riflessione; ognuno, infatti, partendo da angolazioni differenti arriva a delle conclusioni differenti, anche opposte, con la consapevolezza, però, di come la morte sia un elemento con cui il medico deve continuamente confrontarsi: egli non deve, anzi, purtroppo non può, solo curare, ma spesso si trova davanti a situazioni molto complesse e delicate nelle quali ci si può limitare solo ad accompagnare la persona verso una morte che sia il più possibile serena e dignitosa, eventualmente intervenendo con cure palliative, ma sempre nel rispetto della volontà del paziente e senza sconfinare nell'accanimento terapeutico, o nel venir meno al giuramento di Ippocrate.
    È questo un argomento molto complesso, che richiede una valutazione molto più profonda e articolata, qui basta averne fatto cenno.
    Non va sottovalutato che alle responsabilità dei medici e dei sanitari in genere vi sono anche quelle dei famigliari e amici. Inoltre, carenze strutturali oggettive, mancanza di letti, lentezze burocratiche, scarichi di responsabilità ecc., per cui, alla fine, anche assicurare l'efficienza diventa, in un certo senso, una questione etica.
    La cosa fondamentale, tuttavia è il rapporto che si istaura con il malato; si tratta di imparare ad osservarli, durante la visita, per "comprendere" le loro aspettative, i loro timori ed interpretare le loro espressioni mentre viene a loro spiegata la diagnosi, terapie ecc. In una parola, si tratta di focalizzare l'attenzione sul paziente e non solo sulle "disquisizioni scientifiche" (spesso incomprensibili anche tra i diversi medici).
    Si tratta di rendersi conto di come, spesso, un cenno, un saluto, un sorriso, significhi molto per una persona che soffre (quanto meno per il fatto di trovarsi a letto in ospedale), e quindi, spendere un po' di tempo con loro a parlare anche della loro vita ecc., può essere un sollievo, un modo per non far sentire il paziente troppo estraneo ed "escluso".
    Ecco quanto ha scritto un giovane che si preparava all'arte medica: "È per questo che non voglio menzionare nessun caso in particolare, perché mi sembrerebbe di sminuire la sofferenza delle altre persone che in questi mesi ci hanno accolto con simpatia, pur nella diversità dei caratteri, considerandoci, forse, più come "nipotini", amici ecc., che come studenti di Medicina. Ora che siamo giunti alla fine di questa esperienza, mi rendo conto di avere intuito, non dico imparato, che non si deve dare per scontato ciò che sembrerebbe ovvio a prima vista, e cioè che il fine del medico deve essere il bene del paziente-persona. Una decisione buona per il malato può venire solo da un'attenta e scrupolosa valutazione clinica, confortata da quella analisi etica necessaria per individuare i percorsi terapeutici più utili al paziente stesso considerato nella sua unicità e totalità: il "prendersi cura di..." è un concetto molto ampio e generale che implica non solo la salute fisica, ma un significato più ampio di "bene".
    Chiudo con la considerazione che l'analisi etica di un caso clinico non consiste nel fare inutili e a volte sterili discussioni filosofiche, ma nell'individuare soluzioni che in quel momento risultano essere le più adeguate per il bene del malato. Possiamo affermare che una buona decisione clinica è di per se stessa etica.

    Il Prof. Antonino Cavallaro, ha animato il dibattito con domande che hanno portato i partecipanti ha riflettere sulla necessità di non demandare ad altri lo stare accanto ai propri famigliari ammalati; il prendersi cura amorevole è una medicina insostituibile.

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  • Incontro del 14 ottobre 2002

    I CONFLITTI NELLA COPPIA

    Dott.ssa Elisabetta ANDREOLI
    Prof. Pier Giorgio FOGLIO BONDA

    14 ottobre 2002
    Certo non mancano occasioni di conflitti nella coppia al punto che possiamo affermare che, senza la Grazia del Signore, è possibile fare ben poco, mentre, con il Suo aiuto, è possibile anche quello che potrebbe apparire impossibile: "Sì, impossibile agli uomini, ma non a Dio 'con' e 'per' il quale tutto è possibile, come ad esempio, trasformare il nostro cuore di pietra in un cuore palpitante di vero e ardente amore!".
    Qui di seguito la semplice elencazione di dieci punti da tenere presenti se non si vuole che un qualche conflitto faccia esplodere la coppia.
    Entrare pienamente e in modo coinvolgente nel rapporto.
    Cercare esplicitamente e in modo consapevole momenti di serena e piacevole intimità.
    Alimentare consapevolmente sentimenti positivi dell'altro/a e comunicarli.
    Saper sottolineare dell'altro/a le qualità che sono complementari e, saper dire anche 'grazie!'.
    Apprendere la capacità di ascoltare, promuovendo canali di comunicazione verbale e non verbale.
    Interessarsi autenticamente degli obiettivi dell'altro/a - se uno vince o perde è la coppia che vince o perde.
    Parlare della propria storia passata, dei momenti belli e non, per scoprire che c'è una vita comune e non solo cose.
    Essere sistematicamente onesti e congruenti con il nostro partner, che non significa essere sinceri per forza.
    Conoscere e scoprire le aspettative e i desideri dell'altro/a - un piccolo dono può essere segno di grande amore.
    Desiderare di 'perdere' del tempo insieme al solo fine di stare totalmente rilassati e soli in un vero ' dia-logos'.
    Da ultimo, ma non meno importante bisogna tenere presente che senza l'amore vero, quello che viene dal Signore, non è possibile impedire che la coppia venga vissuta come un carcere, come ad esempio un numero megagalattico di zero, se non sono preceduti dall'intero valgono ben poco.
    Anche per questo il superamento dei conflitti non avviene mettendo l'attenzione sul "non far questo e quello" ma vivendo positivamente un atteggiamento di dono. La coppia, ad esempio, dovrebbe fare continua esperienza del sentimento della tenerezza la quale rappresenta, un contenuto tipico dell'esistenza cristiana. Il cristianesimo, infatti, senza tenerezza, rischia di apparire in chiave riduttiva, quasi soltanto ritualista o moralista e senza fascino. E' la carità che fonda la tenerezza ed è la tenerezza che impedisce alla carità di ridursi ad una morale del dovere, formandole il "cuore".
    I coniugi sono stati immersi, grazie al battesimo, nell'immenso abbraccio misericordioso del Signore, per questo la loro coscienza è continuamente interpellata, affinché si facciano segno vivente della tenerezza di Dio, fra gli uomini, una tenerezza nuova, quella di Gesù che lava i piedi a noi. E' questo un percorso inesplorato ma decisivo, perché la Chiesa si presenti al mondo come il Sacramento di un Dio di bontà e grazia e non di paura né di punizione.
    Riportare l'attenzione su questa dimensione teologica della tenerezza porta con sé notevoli implicazioni di ordine ecclesiologico. Non è possibile parlare di tenerezza senza mettersi in discussione come Chiesa e come singoli, in cammino con i più umili.
    La teologia della tenerezza suppone, di fatto, la prassi della tenerezza e pone in crisi un modo di essere cristiani che rimane alla superficie o si accontenta di un cristianesimo mediocre, senza slancio ed entusiasmo. Essa proclama alla comunità dei credenti che senza il vangelo della tenerezza non si risponde pienamente al vangelo dell'amore che il Maestro ci ha lasciato, divenendo alla fine incapaci di portare agli uomini il lieto annunzio della grazia.
    Anzi, fuori del vangelo della tenerezza è forte la tentazione di essere o di tornare ad essere una Chiesa del dominio e dell'esclusività.
    Uomo e donna sono chiamati ad andare, entrambi, a "scuola di tenerezza", arricchendosi reciprocamente dei doni di cui sono portatori e impegnandosi a costruire insieme, in un dialogo positivo e rispettoso della differenza, un'autentica "civiltà della tenerezza".
    E che cosa significa andare a "scuola di tenerezza" se non aprirsi agli orizzonti ineffabili dell'Assoluta Tenerezza? La tenerezza è, per così dire, il mistero nuziale della storia!

    "Nondum amabam, et amare amabam ... quaerebam quid amarem, amans amare" (A. Agostino, Confessioni, III, 1).

    "Se tu ami senza suscitare un'amorosa corrispondenza, cioè se il tuo amore come amore non produce una reciprocità d'amore, se nella tua manifestazione vitale di amante non fai di te un amato, il tuo amore è impotente, è un'infelicità ed un fallimento totale" (K. Marx, 3° Manoscritto economico-filosofico, 37).

    PRESENTIAMO ORA I "DODICI" POSSIBILI "TIPI" DI COPPIA

    1. - ALCUNE OSSERVAZIONI PRELIMINARI

    1.1. - Queste che qui presentiamo sono delle "metafore" che, in quanto tali, colgono e mettono in rilievo solo qualche aspetto della estremamente ricca e complessa realtà della "coppia", rilevandolo in maniera particolare, senza tuttavia pretendere di essere una descrizione adeguata di essa.

    1.2. - Va sottolineato soprattutto che:

    • Una situazione di coppia non si esaurisce in uno solo di questi "tipi"; al contrario, in genere, sono contemporaneamente presenti anche alcuni elementi di altri "tipi", seppure uno di essi è, in un determinato momento, quello prevalente e che maggiormente caratterizza la dinamica interazionale, mentre gli altri sono secondari e complementari.
    • Nei diversi periodi della vita della coppia è possibile (e in genere, anche molto probabile) che uno o l'altro di questi "tipi" di rapporto diventi più significativo di un altro, che in diverse situazioni e circostanze è stato o diventa invece prevalente. Questo avviene come conseguenza sia dell'evoluzione (crescita, stasi o regressione) che si manifesta negli ambiti cognitivo, affettivo, interazionale, occupazionale, ecc., di uno o dell'altro dei partners, o della loro reciproca relazione, o della coppia in quanto tale; sia dell'intervento di fattori "esterni" (ambientali, situazionali, relazionali, ecc.) che influenzano la coppia e le sue dinamiche in maniera più o meno esplicita, diretta e significativa.
    • Il rapporto di coppia non è qualcosa di "statico" ma di "dinamico"; non è una "struttura" ma una "vita"; è un "cammino costruito insieme" a partire da un punto di partenza, più o meno evoluto e parziale, verso "obiettivi", personali e comuni, sempre più maturi, ampi, elevati e soddisfacenti; verso "orizzonti", che proprio perché tali, non possono essere mai pienamente raggiunti; che vengono definiti e ridefiniti in maniera sempre più chiara e relativizzati consensualmente, con sempre maggiore coerenza, alla propria realtà e situazione; valutati insieme; e realizzati attraverso un impegno concorde, caratterizzato da mutuo stimolo e sostegno.
    • È fondamentale che ognuno dei partners (e ambedue insieme !) si rendano sempre più consapevoli1 di quali sono gli elementi essenziali che caratterizzano il loro reciproco rapporto e dei fattori che lo condizionano, così da poterli gestire in maniera produttiva, minimizzando i conflitti (soprattutto quelli derivanti da contenuti inconsci o comunque non sufficientemente elaborati); e favorendo esplicitamente quegli aspetti che sono produttivi e funzionali per la serenità, l'integrazione e il benessere tanto individuali quanto della coppia come tale.
    • Si deve ricordare che il rapporto di coppia è sempre un'interazione "diadica" che, conseguentemente e in quanto tale2, tutto quello che avviene nell'ambito della coppia non può essere in nessun caso considerato come responsabilità "esclusiva" di uno di essi. Anche se è sempre uno dei due partners colui che per primo, con le sue azioni o omissioni, pone le basi di quelle dinamiche che determinano in seguito la manifestazione di uno specifico "tipo" di coppia, egli non va mai considerato come l'unico e nemmeno come il principale responsabile della strutturazione di tale "modalità relazionale", giacché essa è sempre e comunque conseguente all'interagire che si stabilisce tra ambedue i membri e alle loro reciproche stimolazioni e rapporti. Nella vita di coppia tutto dipende sempre dalla corresponsabile interazione di ambedue i partners, anche quando è uno di essi colui che dà inizio alle specifiche dinamiche che la determinano, la strutturano e la mantengono.
    • Una coppia può definirsi "sana" e "produttiva" quando è un fattore primario ed essenziale nella stimolazione della crescita, dell'integrazione, dell'autorealizzazione, della soddisfazione e del benessere di ognuno dei partners considerati come singole persone di ambedue i membri della coppia visti come un "insieme" o un "sistema interattivo". È evidente che questo non comporta assolutamente la totale assenza di momenti di difficoltà, di stasi, di regressione e di conflitto (a volte persino anche gravi e anche relativamente prolungati); problemi che, al contrario, molte volte possono costituire altrettanti elementi che, se adeguatamente affrontati e produttivamente risolti, rinvigoriscono e danno nuovo slancio alla vita della coppia. Affinché però questi eventuali problemi si trasformino in fattori positivi di sviluppo (sia individuale che del gruppo-coppia) è necessario che siano appropriatamente presi in considerazione e utilizzati in maniera funzionale. Per farlo è necessario che essi:
      • non siano rimossi, negati o considerati come fatti puramente secondari, passeggeri e di scarsa importanza, che "si risolvono da soli";
      • vengano, al contrario, opportunamente focalizzati e valutati nella loro obiettiva significatività;
      • siano analizzati accuratamente e in maniera approfondita sia da ognuno singolarmente che da ambedue i partners insieme, attraverso un dialogo (non un "monologo" né un discorso "parallelo") aperto, chiaro, onesto, non pregiudiziale, non accusatorio, non competitivo, comprensivo, accettante e indirizzato non a trovare "scuse" o "accuse" reciproche, ma a comprendere, nel modo più obiettivo e sereno possibile, il/i perché che hanno determinato quella specifica situazione e ad elaborare relativamente ad essa soluzioni realistiche, costruttive, che siano frutto di scelte e decisioni concordi, e che diano luogo ad azioni concrete e corresponsabili;
      • determinino una nuova, esplicita e convinta riaffermazione del proprio mutuo interesse, desiderio e convinzione di continuare a realizzare insieme la esaltante esperienza della "vita a due" e del "continuare a camminare insieme";
      • non vengano in seguito dimenticati ma neppure sistematicamente riportati alla memoria (soprattutto nel caso di eventuali nuovi momenti di difficoltà); ma vengano vissuti come fatti realmente accaduti, che hanno contribuito e possono continuare a costituire fattori non secondari di reciproca comprensione, unione, impegno e progettualità.
    • Infine è necessario segnalare che le caratteristiche "negative" ed eventualmente anche manifestamente "patologiche" della coppia non hanno una correlazione negativa con la sua "tenuta" e la sua "durata". Al contrario, coppie decisamente "disturbate", con frequenza, si mantengono "legate" (non "unite" !) molto più a lungo di altre. Questo come conseguenza del fatto che la situazione patologica costituisce, per uno o per ambedue i partners, un elemento di "saldatura", anche molto resistente, nella misura in cui i comportamenti inadeguati3 di uno di essi, trovano o determinano nell'altro atteggiamenti complementari, più o meno consapevoli e autonomi, di passività, vittimismo, rassegnazione, "maternage", giustificazione, dedizione, incapacità di appropriata valutazione, eccessiva comprensione, esagerato sostegno, incondizionata disponibilità, ecc., che gratificano in lui bisogni e desideri personali, in gran parte inconsci, che sono gravemente immaturi e che non vengono altrimenti soddisfatti.

    2. - I DODICI POSSIBILI "TIPI" DI COPPIA

    2.1. - La coppia "PARCO BUOI"

    • Questi partners prendono la vita come un puro "impegno", "sacrificio", "sforzo", "lavoro" e "dovere superegoico".
    • Il loro "legame" ("") è essenzialmente fondato sugli aspetti "dovuti" (derivanti da leggi, norme, precetti, abitudini, condizionamenti socio-culturali e ambientali) che sono per loro di gran lunga più importanti (a volte sono gli unici veramente "significativi") degli aspetti (atteggiamenti, comportamenti, vissuti, ... sia personali che reciproci) derivanti sia da autentiche scelte e decisioni, fondate su veri valori; sia dai bisogni, dalle motivazioni, dai desideri e dalle aspirazioni di ognuno dei "coniugi", che non vengono riconosciuti o sono più o meno esplicitamente svalutati o persino negati.
    • Si tratta di una situazione in cui ambedue i "coniugi" vivono e si sentono sistematicamente "legati ad uno stesso giogo" ("coniugale" = "cum – iogu"); obbligati a "tirare la carretta" del matrimonio, della famiglia ... e della vita.

    2.2. - La coppia "COMPAGNIA DI ASSICURAZIONI"

    • Il rapporto viene visto esclusivamente nella prospettiva di un reciproco "sostegno" e "rassicurazione", di tipo sia economico che sociale, sanitario, lavorativo, ecc.
    • Ognuno dei partners fa "il proprio dovere" nella convinzione e con il presupposto che anche l'altro lo faccia, così da poter sentire assicurati (nel presente e, soprattutto, nel futuro – malattia, problemi di vario tipo, vecchiaia, ... -) i bisogni vitali essenziali nell'ambito della reciproca "assistenza", "sostegno", "soccorso".

    2.3. - La coppia "NURSERY"

    • Obiettivo primario e fondamentale (a volte anche "esclusivo") di questo tipo di coppia è la procreazione e l'allevamento dei figli.
    • A questo obiettivo vengono esplicitamente subordinati tutti gli altri, soprattutto quelli relativi agli ambiti affettivo, sensuale e sessuale.
    • Concluso questo impegno (di allevare i figli) esso viene sostituito da un altro simile (nipoti, volontariato sociale, ecc.) o si inaridisce e si esaurisce la motivazione sottostante il rapporto, che viene trasformato, in forma più o meno consapevole, in uno degli atri "tipi" qui descritti.

    2.4. - La coppia "ALBERGO"

    • Ognuno dei due partners vive la relazione come un qualcosa di puramente "strumentale" e di fondamentalmente "superficiale".
    • Uno assicura all'altro determinati "servizi" (alimentazione, pulizia della casa, cura della biancheria, assistenza in caso di malattia, ecc.) che vengono puntualmente "retribuiti" a livello sia economico, sia sessuale, sia di compagnia, sia – nel migliore dei casi – di confidenzialità e di "amicizia".

    2.5. - La coppia "SOCI IN AFFARI"

    • Il matrimonio viene visto e vissuto come una "S.p.A.", nella quale ognuno dei due "soci azionisti" (paritari o di maggioranza/minoranza) pone il proprio lavoro, preoccupazioni, impegno ... per raggiungere, alla fine, l'obbiettivo della realizzazione dei propri "interessi" (non solo economici ma anche – e, a volte, soprattutto – sociali, professionali, ecc.).
    • Ognuno dei partners sa e "sente" di valere e di essere valutato dall'altro primariamente o anche esclusivamente nella misura in cui "produce" adeguatamente in funzione del raggiungimento degli obiettivi della " società" gestita in comune.

    2.6. - La coppia "SISTEMA PLANETARIO"

    • Uno dei due membri della coppia esercita, in maniera più o meno consapevole, appropriata efficiente e accettata dall'altro la funzione del "sole"; mentre l'altro si comporta come un "pianeta" che gira intorno ad esso, legato a lui e dipendendo da lui per ricevere luce, forza e calore.
    • Fino a quando questa situazione "funziona" (e cioè, fino a quando il "sistema" mantiene il proprio "equilibrio"), tutto "va bene". Se però il "sistema" entra in crisi, soprattutto perché il "sole" non è più in grado di svolgere il proprio ruolo o non si rende più disponibile a realizzarlo; o perché il "pianeta" non accetta più questo rapporto di sudditanza e tenta, in maniera variamente esplicita, diretta, manifesta e consapevole di "liberarsi" dalla sua "orbita", avviene un "cataclisma" ed entra in crisi, in maniera in genere grave e difficilmente reversibile, la relazione.

    2.7. - La coppia "BUCO NERO"

    • Uno dei due partners, seppure non sempre in maniera esplicita né soprattutto manifesta, costituisce il vero e unico "centro" che assorbe sistematicamente tutte le "forze", "energie", "interessi", "prospettive", "vitalità", ecc. della coppia.
    • Egli si trasforma, così, nel nucleo "vorace" e assolutamente "egoistico" che attira a sé, in funzione esclusiva del proprio benessere e profitto, ingoiandoli con insaziabile ingordigia, gli interessi, i bisogni, le motivazioni, i desideri, le aspettative, i progetti, le attività, il tempo, le forze, ... dell'altro.

    2.8. - La coppia delle "COMETE"

    • In questo tipo di coppia ognuno dei partners vive e "viaggia" per conto proprio, visitando a piacimento, in maniera sistematica o saltuaria ma abituale, altri "sistemi" e "universi" alternativi a quello della propria relazione.
    • In questa modalità di rapporto, ogni tanto (a periodi più o meno regolari), si producono tra i due membri della coppia "nuovi incontri", durante i quali divampano nuovamente "fiammate" reciproche di interesse, desidero, voluttà, passione, ...
    • Durante questi "periodi di grazia" sembra che tutto nel rapporto abbia un nuovo e definitivo inizio e che finalmente si possa instaurare un "legame" solido, durevole e prospettico ... Il tutto però, a poco a poco o a volte anche rapidamente, "sbiadisce" fino a oscurarsi di nuovo totalmente, mentre ognuno dei due riprende il proprio "viaggio autonomo attraverso il buio interstellare", alla ricerca di qualche nuovo "sistema" nel quale potersi momentaneamente integrare.

    2.9. - La coppia "SACRIFICALE"

    • In essa uno o ambedue i partners (in quest'ultimo caso a volte in maniera concomitante, altre in forma alternante) vive immolando tutto se stesso, in maniera consapevole o meno, sull'altare della felicità, del benessere, degli obbiettivi, dei progetti, dei bisogni, dei capricci, delle richieste, ..., anche esagerate e indebite, dell'altro.
    • Si tratta di una coppia in cui l'annientamento di uno o reciprocamente di ambedue i partners è la condizione indispensabile che dà significato e assicura la sopravvivenza del "sistema".

    2.10. - La coppia "CASA DI APPUNTAMENTI"

    • È la coppia in cui uno o tutti e due i partners hanno come unico obiettivo quello di ottenere il soddisfacimento, nella massima misura possibile, dei propri bisogni e desideri, in particolare di quelli sensuali e, soprattutto, di quelli sessuali, senza preoccuparsi maggiormente (o per nulla) di quelli emotivo-affettivi.
    • A questo obiettivo essenziale ed anche, a volte, esclusivo vanno indirizzate e subordinate tutte le dinamiche, i progetti, le aspettative, gli interessi del o dei partners; esso è l'unico "collante" che li mantiene uniti, così che non si pone nessun limite alla ricerca di questo soddisfacimento che va sempre, solo e comunque perseguito, sia all'interno del rapporto; sia, se o quando questo non è possibile o non viene vissuto come adeguatamente gratificato, anche all'esterno di esso.

    2.11. - La coppia "COMPAGNIA TEATRALE"

    • Finalità primaria (e, a volte, unica) dell'interazione di questo tipo di coppia è quella "rappresentativa". Il rapporto, cioè, in maniera più o meno consapevole, serve solo e sempre ed è sistematicamente e primariamente finalizzato a permettere a uno o ad ambedue i partners di ottenere affermazione e realizzazione personale, approvazione, plauso, valutazione ... nell'ambito sociale, pubblico ed esterno.
    • In questo tipo di interazione l'obbiettivo più importante è quello di riuscire a mantenere "elegantemente" le formalità del rapporto, in modo tale che tutti pensino che si tratta di una coppia "interessante", "vitale", "di successo", "brillante", ecc. Quello che poi avviene all'interno di essa, come conseguenza di un'intimità assolutamente inesistente o solamente "di facciata", non ha nessuna importanza o significato vero e profondo.

    2.12. - Infine, l'unico rapporto "autentico" e "sano": quello della coppia "A SISTEMA BINARIO"

    • In questo tipo di interazione ambedue i partners hanno e sono consapevoli di avere una particolarissima, forte e, alla fine dei conti, pari potenzialità di attrazione reciproca, a tutti i livelli e in tutti gli ambiti (fisico, cognitivo, emotivo, motivazionale, progettuale, sociale, dell'attività).
    • Vivono e stimolano a livello cosciente, realizzandolo costantemente in maniera implicita ma anche esplicitandolo con relativa frequenza, un atteggiamento di "" per l'altro; di volere e di sapere "prendersi cura" di lui/lei; e di farlo in maniera amorevole, premurosa, sobria, discreta, adulta, pienamente coerente con le sue diverse situazioni, circostanze, momenti di vita, esperienze, bisogni e richieste. Comportamento che comunque, sempre e manifestamente, é scevro da prevaricazioni, eccessi, intromissioni e condizionamenti indebiti, manifestazioni di sfiducia, sostituzioni inutili o persino umilianti e richieste, più o meno dirette o velate, di ricevere in cambio dimostrazioni di "obbligata" gratitudine e corrispondenza.
    • Sono coscienti e convinti che il successo e la gratificazione di ognuno dei due (in tutti gli aspetti della realtà, da quello sensuale e sessuale a quello affettivo, familiare, economico, ...) dipende in maniera del tutto particolare e diretta dall'impegno e dalla collaborazione reciproca, che unisce le capacità e le forze di entrambi, così da ottenere "risultati" e di raggiungere "traguardi" molto più significativi e soddisfacenti di quelli che scaturirebbero solo dallo sforzo e dalle potenzialità di ognuno.
    • Si tratta di persone che hanno imparato, che sono convinte e che sentono profondamente di non poter più "vivere" (realizzarsi, affermarsi, raggiungere i propri obiettivi, essere sereni, soddisfatti, felici, ...) se non "insieme" ... anche se ognuno sa che quello che lui pone per la realizzazione degli obiettivi del "sistema"4 è molto più di un 50%. Pur tuttavia ognuno dei partners è, nel profondo, altrettanto convinto che se (purtroppo !) non gli fosse più possibile (per cause interne alla coppia o per eventi esterni ad essa) continuare a "camminare insieme" con l'altro/a, sarebbe comunque in grado (seppure con gravi vissuti di frustrazione e di disagio e con non poco impegno e fatica) di continuare a farlo da solo/a.

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  • Conferenza dell'11 ottobre 2002

     L'IMPEGNO POLITICO DEI CATTOLICI
    IN ITALIA DAL NON EXPEDIT
    AI GIORNI NOSTRI.
    I CATTOLICI DALL'UNITÀ D'ITALIA
    AL "PATTO GENTILONI": ESULI IN PATRIA ?

    Dott. Benedetto COCCIA

    11 ottobre 2002
    La presa di Roma provocò necessariamente una riorganizzazione del mondo cattolico italiano. Dopo il 1870 gli intransigenti hanno il sopravvento; non bisogna dimenticare i cattolici moderati, che differivano dagli intransigenti perché sostenevano la necessità di aderire allo stato unitario e non accettavano la formula astensionista di Don Margotti "né eletti né elettori".
    Comunque i cattolici intransigenti si estraniano dalla vita pubblica. All'inizio, in mancanza di precise istruzioni, questo estraniarsi è istintivo; e prima ancora che fosse varata la formula del non expedit i cattolici, difronte ad una situazione particolarmente confusa, avevano scelto l'atteggiamento dell'astensione.
    Il non expedit nacque nel marzo del 1871, quando la penitenzieria del Vaticano, rispondendo alla domanda "se nelle circostanze attuali, ed in vista di tutto ciò che si sta consumando in Italia a danno della chiesa, sia espediente concorrere alle politiche elezioni",- rispose: "non expedire". Ma l'ufficialità si ebbe nel 1874, quando lo stesso Pio IX si espresse, affermando che per un cattolico non era lecito andare a sedere a Montecitorio.
    Si tenga presente, però, che già nel 1861 Don Giacomo Margotti, (fondatore nel 1863 de "L'unità cattolica", battagliero giornale intransigente), aveva coniato la formula "né eletti né elettori" in un articolo apparso l'8 gennaio 1861, destinato a diventare il manifesto dell'astensionismo elettorale dei cattolici, prima ancora della sanzione ufficiale della S. Sede. Due mesi dopo la presa di Roma, alle elezioni politiche generali si astenne la totalità dei cattolici; la percentuale dei votanti fu infatti il 45,5% degli elettori iscritti.
    Tuttavia il divieto di Pio IX si riferiva alle sole elezioni politiche, mentre a quelle amministrative, i cattolici avrebbero potuto partecipare; anzi si verificò in qualche centro la necessità di dover incitare i cattolici, anche con la stampa, a partecipare alle elezioni amministrative; e la stampa cattolica dovette dimostrare che la partecipazione di cattolici (candidati ed elettori) alle elezioni comunali e provinciali non significava necessariamente adesione all'ordine nuovo portato dai liberali. In questo periodo (1870 –1875) i contrasti tra la stampa liberale e quella cattolica intransigente sono particolarmente aspri. I cattolici intransigenti erano accusati di "attentare alla sicurezza della patria, di attizzare la guerra civile e di invocare l'intervento straniero".
    Al fine di attenuare tale contrasto, intervenne lo stesso Leone XIII riproponendo una formula "preparazione nell'astensione" che era stata lanciata dal giornale "Il cittadino di Brescia", in occasione delle elezioni del maggio 1880. Intanto, in seguito a due congressi nazionali dei cattolici italiani, il primo a Venezia nel 1874, il secondo a Firenze nel 1875 si pongono le basi dell'Opera dei Congressi, organismo permanente impiantato secondo lo schema dell'organizzazione ecclesiastica, con comitati parrocchiali e diocesani (Sull'Opera dei Congressi cfr., G. De Rosa, Storia politica dell'azione cattolica in Italia. L'Opera dei congressi (1874-1904), Bari, Laterza, 1953; G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia dalla restaurazione all'età giolittiana, Bari, Laterza, 1976; E. Vercesi, Il movimento cattolico in Italia (1870-1922), Firenze, casa editrice "La voce", 1923; G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Roma, editori Riuniti, 1972).
    Ad ogni modo a dar coscienza ai cattolici contribuì molto l'opera di Leone XIII e, in particolare l'enciclica Rerum novarum pubblicata nel 1891.
    Dal 1° gennaio esce a Roma "Cultura sociale" rivista fondata e diretta dal giovane sacerdote Romolo Murri. Questa rivista doveva assumere grande importanza negli anni a venire, divenendo il principale organo del movimento democratico cristiano. Nella dichiarazione programmatica i redattori si dicevano "cattolici integralmente, cattolici col Papa e con la grande maggioranza dei cattolici italiani".Tra i collaboratori anche Filippo Meda.
    Alla vigilia dei moti del 1898 i cattolici si ritrovano con una buona organizzazione, chiarezza d'idee e una coscienza sociale moderna. A questi risultati aveva condotto l'Opera dei Congressi, sebbene, come abbiamo detto, la stessa organizzazione potesse considerarsi, per certi versi, superata. La seconda sezione dell'Opera, presieduta prima dal Conte Medolago Albano e dal 1890 da Giuseppe Toniolo è organismo vivo. Nel frattempo all'interno dell'Opera dei Congressi, che accentua il suo carattere di rigida organizzazione, una sezione è validamente funzionante, ed è quella della carità e dell'economia cattolica. Cfr., A.Gambasin, Il movimento sociale nell'Opera dei Congressi (1874-1904), Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Roma, Università Gregoriana, 1958; G. Are, I cattolici e la questione sociale in Italia (1894-1904), Milano, Feltrinelli, 1963.
    «Il congresso è cattolico e non altro che cattolico», «non è liberale, non è tirannico, non è d'altra qualità». Il suo scopo «è di riunire in generali adunanze i delegati e i membri delle società cattoliche italiane». Il 12 giugno del 1974 con il proclama di Vito D'Ondes Reggio, si apriva a Venezia la storia dell'Opera dei congressi. I primi "Stati generali" dei cattolici italiani, preparati per quattro anni all'indomani della breccia di porta Pia, ma sopratutto la prima «intransigente» manifestazione del laicato cattolico ottocentesco, trasformati ben presto in un "Comitato permanente".
    Furono i primi trent'anni di vita sociale e religiosa dei cattolici nello Stato unitario accomunati - tranne alcune espressioni minoritarie - nell'opposizione frontale al Regno sabaudo e al liberalismo della nuova classe dirigente. Vicenda tormentata nel cuore del Risorgimento che Marco Invernizzi ha riportato all'attenzione delle stampe con il volume: "I cattolici contro l'unità d'Italia? L'Opera dei Congressi" «È il periodo in cui nacquero le banche (Giuseppe Tovini fonda il Banco ambrosiano, il San Paolo di Brescia), si aprirono le casse rurali, si inventarono inedite forme di protezione sociale, ma sopratutto si costituirono attorno alla parrocchia spazi di vita reale alternativi a quelli proposti dalle istituzioni statali. Si volle creare una società autonoma e indipendente prescindendo dallo Stato. Molto importanti diventarono in questo contesto le elezioni amministrative a cui, nonostante il non expedit, i cattolici potevano partecipare. L'obiettivo era di riconquistare dal di dentro la società».

    I moti del 1898 furono la causa per una repressione governativa che si abbattè su due grossi filoni popolari: cattolici e socialisti. Per quanto riguarda i cattolici, il governo tentò di screditarli additandoli come sobillatori ed antitaliani, ma non solo, molti giornali cattolici che avevano scritto articoli roventi contro lo stato delle cose sono soppressi, tra questi "L'Osservatore cattolico", si arrestano giornalisti e si deportano da una città all'altra, si devastano con perquisizioni e poi si sopprimono centinaia di associazioni cattoliche in tutta Italia. Di fronte a tali avvenimenti intervenne Leone XIII che volle esprimere tutta la sua solidarietà inviando una pubblica lode ai due giornalisti più importanti: Sacchetti, direttore dell'"Unità cattolica" e Don Albertario "direttore de L'"Osservatore cattolico".
    Concluso il momento della repressione, inizia un nuovo processo che condurrà i cattolici all'ingresso nella vita politica. Si intravede ormai la possibilità che le organizzazioni cattoliche cooperino con i liberali più illuminati per imprimere un nuovo corso alla vita pubblica. Insomma all'indomani della repressione si scoprono i cattolici. Essi sono ancora visti come "clericali", ma si comincia a guardarli con rispetto. A determinare questo mutamento valse il consolidarsi, sia tra i cattolici intransigenti che conciliatoristi, delle preoccupazioni di carattere sociale. L'occasione di rottura fu data dall'atteggiamento dei cattolici durante i fasci siciliani e le sommosse che culminarono nel 1898; ma bisogna riconoscere che ad imprimere la spinta vitale era stato Leone XIII ed uomini come Giuseppe Toniolo, alla cui attività si deve la propagazione capillare dell'insegnamento sociale, soprattutto attraverso i periodici che cominciano ad apparire proprio dalla fine del 1898 ai primi del '900.
    «Decisivi furono i moti del '98 a Milano per il rincaro del prezzo del pane. Gli scontri, è accertato, non furono organizzati dai socialisti, ma di fatto si confrontavano le forze che cercavano ancora di costruire lo Stato senza i movimenti di massa; il coinvolgimento di socialisti e cattolici nei moti di piazza fece temere però un possibile accordo fra le due principali organizzazioni popolari. I liberali compresero che non potevano più governare da soli, mentre la Santa Sede maturò la convinzione che la "questione sociale" era divenuta più importante della "questione romana". Nell'enciclica Fermo proposito del 1905 Pio X avrebbe precisato che "c'è un bene comune maggiore da salvaguardare che è la pace sociale". Un pericolo maggiore di quello rappresentato dal liberalismo al governo, per cui si iniziò a valutare la prospettiva degli accordi elettorali con i liberali moderati in funzione antisocialista. Specularmente i giovani della democrazia cristiana si dicevano disposti ad allearsi con i socialisti in funzione antiliberale. Una spaccatura fra clerico moderati e democratico cristiani che sarebbe diventato una costante del movimento cattolico italiano».
    Sull'argomento Cfr. P. Scoppola, Dal neoguelfismo alla democrazia cristiana, Roma, Studium, 1963; P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico italiano, Bologna, Il Mulino, 1961; A. C. Jemolo, Chiesa e stato in Italia dall'unificazione ai giorni nostri, Torino, Piccola biblioteca Einaudi, 1977; G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, cit.; L. Ambrosoli, Il primo movimento democratico cristiano in Italia (1897-1904), Roma, Cinquelune, 1958; G. Marcucci Fanello, Romolo Murri, in Storia e politica, fasc. II, aprile-giugno 1970; L. Bedeschi, I cattolici disubbidienti, Roma, Napoli, Vito Bianco editore, 1959; G. Spadolini, Murri, in Gli uomini che fecero l'Italia. Il Novecento, Milano, Longanesi, 1972.«Fu l'assunzione di consapevolezza dei cattolici che ormai era finita la societas cristiana e l'alleanza fra Chiesa e Stato, un'alleanza difficile, per alcuni aspetti controproducente, ma che aveva informato gli Stati preunitari. La Chiesa si rese conto di essere diventata una parte fra le altre con uno Stato nelle migliori delle ipotesi neutrale, se non ostile. Da questo nacque la necessità di una organizzazione capace di agire nella società per fermare il processo di scristianizzazione. Il risultato fu una rete sociale che spiega la forte religiosità presente ancora oggi nella società italiana».
    Nel corso degli anni il peso dei cattolici nella vita nazionale era gradualmente ma costantemente cresciuto. Si è già accennato che il non expedit era stato sempre limitato alle elezioni politiche, mentre si era incoraggiata la partecipazione dei cattolici alle elezioni amministrative. Ed è proprio nelle elezioni amministrative che si erano sperimentati i primi accordi fra cattolici e moderati culminanti poi, nel 1913, nel Patto Gentiloni (Sul Patto Gentiloni Cfr. G. Dalla Torre, I cattolici e la vita pubblica italiana, Città del Vaticano, 1944; F. Meda, Pio X e la vita politica italiana, in Vita e pensiero, giugno 1935; L. Sturzo, Il partito popolare italiano, Bologna, Zanichelli, 1956, vol. I; G. De Rosa, "Il movimento cattolico in Italia dalla restaurazione all'età giolittiana"), che sancì l'inizio ufficiale della partecipazione dei cattolici alla vita politica dello stato. Secondo Filippo Meda i cattolici avrebbero dovuto salvare lo stato, essendo organo necessario alla vita sociale. Compito dei cattolici immessi nella vita pubblica era di infondere uno spirito nuovo. Quasi tutta la stampa cattolica si avvia verso le posizioni di Meda e si fa portavoce delle nuove linee politiche del mondo cattolico italiano.

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  • Conferenza del 4 ottobre 2002

    PSICOANALISI E RELIGIONE

    Dott. Salvatore ZIPPÀRRI

    4 ottobre 2002
    Per introdurre queste mie brevi considerazioni sul tema dei rapporti fra la psicoanalisi e 1a religione vorrei prendere lo spunto proprio dall'immagine che don Mario Pio ha riprodotto sulla locandina che pubblicizza questo nostro incontro. Come si può vedere, a fianco dell'immagine che ritrae Sigmund Freud, il fondatore della psicoanalisi, don Mario Pio ha posto la raffigurazione di una Madonna con in braccio suo figlio Gesù bambino.
    Così, anche se casualmente, l'immagine religiosa scelta da don Mario Pio rappresenta proprio quella "diade" madre-bambino di cui proprio la psicoa­nalisi ha stabilito, a livello scientifico, l'importanza per lo sviluppo psichico futuro dell'individuo. Oggi, proprio grazie alla psicoanalisi, sappiamo che quelle relazioni precoci che il bambino piccolo instaura con la propria madre sono fondamentali per il suo futuro. Se quelle relazioni saranno state positive e soddisfacenti l'individuo maturerà in futuro con un senso di fiducia e di sicurezza inte­riore. Ma se, al contrario, saranno state caratterizzate dal dolore e dalla frustrazione o, peggio ancora, dall'abbandono, quel bambino, da adulto, andrà incontro a seri problemi. Si produrrà cioè in lui quella ferita che rappresenta il "trauma" su cui potrà instaurarsi la sua futura nevrosi.
    Ma ritorniamo ora al tema dei rapporti tra psicoanalisi e religione di cui ci siamo prefissi di parlare oggi.
    In linea generale e preliminarmente vorremmo poter affermare che, prima ancora della psicoanalisi a livello scientifico, la religione ha colto ad un livello diverso ma altrettanto importante, la fondamentale importanza dei legami affettivi familiari per la storia dell'individuo.
    Le storie della Bibbia possono essere esemplari al riguardo: esse racconta­no di conflitti tra fratelli (Caino e Abele), di atti di disobbedienza verso il padre ripagati dal perdono (per esempio la parabola del figliol prodigo) o, al contrario, di devozione filiale ecc.
    Ma prima di proseguire il nostro discorso sarà opportuno fugare un grosso dubbio che potrebbe sorgere al riguardo: nello studiare la religione la psicoanalisi si astiene totalmente (e non potrebbe essere altrimenti) dall'en­trare in merito a problemi che non le competono come la dimostrazione dell'esistenza di Dio, il valore di verità che i precetti religiosi possiedono, eccetera. Non è questo il suo compito, non potrebbe esserlo, non deve esserlo.
    Ma poiché la psicoanalisi è una disciplina che studia l'essere umano, l'uomo nella sua interezza ed in tutte le sue manifestazioni, essa non può, anche se lo volesse, prescindere dallo studio del vissuto religioso presente in ogni essere umano, anche il più deciso ateo che, pur nel peggiore dei casi, crede pur sempre in qualcosa, fosse anche una fede politica o la particola­re dedizione ad una determinata causa che può andare dal recupero sociale dei delinquenti alla protezione degli animali o dell'ambiente.
    Tuttavia non si deve pensare, ed anche questo va detto subito e chiara­mente, che il rapporto tra psicoanalisi e religione sia stato da subito idil­liaco o, come si dice popolarmente, "rose e fiori". Al contrario la psicoana­lisi e la religione sono spesso entrate in aperto conflitto.
    Freud, il fondatore della psicoanalisi, era ateo. Non che lo fosse sempre stato: di origini ebraiche, anzi, aveva ricevuto un'educazione religiosa puntigliosa e meticolosa come spesso sanno darla solo certi educatori reli­giosi ebrei.
    Jung, che per un certo periodo fu allievo di Freud anche se poi se ne distaccò, era addirittura figlio di un pastore protestante.

    Ma come era frequente negli uomini di scienza del secolo scorso e, talvolta, fino ai nostri giorni, la religione, con il suo bagaglio di verità rivelate, era spesso percepita da questi come un ostacolo alla ricerca di nuove verità: basti fra tutti citare qui il caso di Galileo Galilei che dovette pagare di persona per il fatto che le sue teorie sulla rotazione della terra, che oggi sono universalmente accettate, contraddicevano quanto era scritto in alcuni punti delle Sacre Scritture.
    Evidentemente erano ancora lontani i tempi in cui la stessa Chiesa si sarebbe sforzata di spingere i fedeli a non fermarsi al senso letterale delle sacre scritture ma ad andare al di là di questo per coglierne il senso profondo.
    In questa modificazione del modo di porsi di fronte alle sacre scritture molti degli steccati che in passato hanno tenuto separato il mondo della scienza da quello della religione sono venuti a cadere. Ma, per quel che riguarda più specificatamente il rapporto tra la religione e la psicoanalisi, in questo modo di porsi di fronte alle sacre scritture che, proprio perché non devono essere intese nel loro senso letterale, necessi­tano di un lavoro di interpretazione teologica, la religione e la psicoanalisi si trovano a percorrere una strada per molti versi simile.
    In realtà anche la psicoanalisi come metodo scientifico si è sempre posta in una condizione che la spinge ad andare al di là del senso letterale delle cose, che va alla ricerca di significati nascosti, che non si ferma sulle apparenze. Appunto nella ricerca di senso e di significato della vita la psicoanalisi e la religione possono sentirsi preziose alleate. Addirittura, sempre per quel che riguarda più specificatamente l'interpre­tazione delle sacre scritture, non sono mancati neanche esempi di collabora­zione proficua, di teologi cioè che si sono serviti della psicoanalisi per penetrare nel senso più profondo delle Sacre Scritture e, viceversa, di psicoanalisti che fanno ricorso alla teologia per comprendere molti dei simbolismi che le fantasie ed i sogni dei loro pazienti possono presentare.
    Le collaborazioni, o se preferite, le sinergie tra psicoanalisi e religione sono cominciate all'inizio della comparsa dei primi professionisti che si sono dedicati a questa disciplina. In questa prima fase la religione, o, più precisamente, la rigidità che talvolta poteva trapelare da certe sue regole morali, veniva studiata preva­lentemente nel suo aspetto patogeno. Naturalmente in questo campo non sono mancati i conflitti aperti i cui strascichi, talvolta, perdurano ancora oggi.
    Una teoria molto accreditata della psicoanalisi sostiene, infatti, che alla base di alcuni profondi disturbi psicologici ci possono essere dei "sensi di colpa" non risolti. Il "senso di colpa" è, come si suol dire, una "brutta bestia". Si può sfug­gire ad una punizione che ci viene dall'esterno (dicendo una bugia per non farci scoprire, per esempio, oppure sottraendoci a certe nostre responsabi­lità o in mille altri modi ancora) ma è praticamente impossibile evitare una punizione che proviene dal nostro stesso inconscio, che siamo noi stessi ad infliggerci.
    Per di più questa auto-punizione, a differenza di una punizione che even­tualmente ci può essere inflitta dall'esterno, non ha un termine ben preci­so: in altre parole non c'è una pena da scontare dopo di che si è espiata la propria colpa e si ritorna "liberi". Con il "senso di colpa" le cose vanno diversamente: paradossalmente pro­prio perché un'auto-punizione sembra apparentemente più facile da soppor­tare di una punizione che proviene dall'esterno, l'individuo che se la in­fligge sente, in un certo senso, di "averla fatta franca" e quindi si sente ancora più colpevole in una spirale che si alimenta da sé e lo porta a livelli di sofferenza sempre più acuti.
    Molte delle depressioni che oggigiorno costituiscono il disturbo psichico più frequente che uno psicoanalista può diagnosticare nei suoi pazienti, allor­ché vengono analizzate adeguatamente possono rivelarsi come forme contorte di auto-punizione che certi individui, a livello inconscio, si auto-infliggono perché si "sentono in colpa".
    Per di più il "senso di colpa" non è mai commisurato alla gravità dell'errore reale che l'individuo può aver commesso: alcuni possono sentirsi in colpa verso i propri figli nonostante, ad un esame obiettivo, si rivelino essere dei genitori esemplari mentre, al contrario, il più pericoloso dei serial­killer può non provare alcun rimorso nei confronti del male che ha procura­to alle sue malcapitate vittime.
    È facile intuire come una religiosità vissuta in modo punitivo e persecuto­rio possa alimentare i "sensi di colpa". A questo proposito non è superfluo notare come nella religiosità cristiana l'idea di un Dio amorevole e disponibi­le a perdonare le nostre manchevolezze è andata via via sostituendosi a quella di un Dio più arcaico, severo, minaccioso ed intransigente [sottolineatura mia]. Tuttavia, al nostro interno, in quell'istanza psichica che noi psicoanalisti chiamiamo Super-Io e che corrisponderebbe, grosso modo, alla nostra co­scienza morale, i divieti ed i rimproveri per le nostre inadeguatezze posso­no continuare a farsi sentire.
    Si deve invece partire dall'ammissione dell'imperfezione della nostra natura umana: in questa nuova luce la distanza che separa i nostri reali traguardi da quelle che sono le nostre ambizioni più o meno elevate cessa di essere un fattore patogeno. Non è perciò infrequente osservare che spesso taluni individui soffrono psichicamente perché le mete che si sono prefisse sono troppo elevate e quindi possono sentirsi indegni quando non riescono a raggiungerle. Allorché gli obiettivi che si prefiggeranno saranno più commisurati alle loro reali capacità il dispiacere per le loro imperfezioni sarà destinato ad attenuarsi fino a scomparire del tutto.
    Da questo punto di vista, perciò, gli psicoanalisti e gli uomini di chiesa possono trovarsi a svolgere, ognuno per la parte che gli compete, un compito analogo che consiste nel mitigare la severità di una religiosità vissuta in modo estremamente intransigente e punitivo e, parallelamente, attenuare i "sensi di colpa" per quelli che possono essere ritenuti i propri errori ed i propri fallimenti.
    Proprio in linea con queste considerazioni, infatti, non è un caso che la psicoterapia e la psicoanalisi siano state spesso considerate come una forma moderna e secolarizzata di "confessione". Naturalmente un paragone del genere, se preso alla lettera, non può essere che respinto dal momento che trascura le singole peculiarità sia del sacra­mento della confessione che degli stessi trattamenti psicoterapeutici. Tutta­via, se si esclude che possa esistere una sia pur parziale sovrapponibilità dei due distinti fenomeni e con le dovute cautele che un paragone del genere obbligatoriamente richiede, non si può non riconoscere che può sussistere una certa analogia tra questi due distinti approcci che, pur nella loro irriducibile diversità, sembrano perseguire il medesimo obiettivo di riconciliare l'individuo con Dio, in un caso, e con la propria coscienza nell'altro.
    Fin qui abbiamo parlato soprattutto dei rapporti tra psicoanalisi e religione focalizzando il nostro discorso sul ruolo patogeno che una religiosità mal vissuta può svolgere alimentando ed esasperando i "sensi di colpa" che possono accompagnare l'esistenza dell'individuo e precipitarlo nella soffe­renza psichica. Abbiamo già ricordato che storicamente fu questo il primo terreno di incontro (e, talvolta, di scontro!) tra la religione e la psicoana­lisi. Ma le considerazioni fatte a proposito di certe analogie tra "confessione cristiana" e "confessione psicoterapeutica" ci portano ora direttamente a discutere di un altro importantissimo aspetto di questo rapporto che, questa volta, ha a che fare con la terapia.
    È un fatto che sia la religione che la psicoanalisi come terapia sottendano, pur con le loro irriducibili differenze, visioni del mondo che sono impronta­te alla "speranza" ed alla "salvezza". Dal punto di vista della religione questo significa che il percorso "salvifico" che essa ci prospetta si alimenta e si regge su sentimenti di fiducia e speranza riguardo al fatto che la "salvezza della nostra anima" sia effet­tivamente possibile. Se così non fosse noi cadremmo in preda alla dispera­zione (che, letteralmente, è perdita di ogni speranza) e la religione cri­stiana, non a caso, considera il sentimento nichilistico di assenza di pro­spettive future come contrario alla "grazia".
    Orbene, fatte le debite differenze, la psicoanalisi come terapia segue anche in questo caso, come si diceva prima a proposito della confessione, un percorso che presenta notevoli analogie con questa visione del mondo improntata a speranza e fiducia.
    Non è un caso, per esempio, che la psicoanalisi come terapia sia nata in contrapposizione a teorie scientifiche che sostenevano il peso cruciale dei fattori ereditari e genetici nella genesi delle malattie mentali. Queste teorie oggi godono di un rinnovato credito scientifico a dispetto di una psicoanalisi che invece attualmente sembra scontrarsi con manifestazioni di scetticismo sempre più crescenti.
    Oggi, più di ieri, non è infrequente per chi svolge la mia professione sentirsi rivolgere dalla persona a cui abbiamo appena consigliato di effet­tuare un lavoro di "scavo psicologico" su sé stesso e sui suoi problemi per venire a capo delle sue difficoltà la solita domanda: "Ma serve davvero? Non è che questo è il mio carattere, la mia personalità, il mio modo di essere e perciò non c'è niente da fare? Chi nasce tondo non muore quadro!".
    Queste forti perplessità, che in gergo tecnico si chiamano "resistenze", trovano nelle teorie scientifiche più biologistiche, che enfatizzano il peso dell'ereditarietà e dei fattori genetici, un forte alimento ed una base razio­nale per sorreggersi ulteriormente.
    Sia ben chiaro! Nessuno vuol qui misconoscere il ruolo dell'ereditarietà di certe caratteristiche psicologiche o il peso dei fattori genetici nello sviluppo di certe patologie mentali. Una simile negazione del peso di questi fattori non è stata mai sostenuta, nemmeno agli albori della scienza psicoanalitica, più di un secolo fa! Ma enfatizzare più del necessario il peso dei fattori ereditari e genetici in psicologia conduce irrimediabilmente all'idea di inguaribilità delle malattie mentali e di immodificabilità del comportamento umano (non solo delle pato­logie più gravi ma anche dei più lievi disturbi di personalità o difetti del carattere) condannando così tutti i nostri sforzi ad una sorta di "nichilismo terapeutico" in cui nulla vale più la pena di essere tentato dal momento che tutto è ritenuto inutile.
    Qui la "disperazione terapeutica" (letteralmente "mancanza di speranza" terapeutica), fatte le dovute proporzioni e differenze, si pone sullo stesso piano della mancanza di fede nelle prospettive di salvezza indicate dalla religione. Certo, in quest'ultimo caso si parla di salvezza dell'anima! Ma, anche se non è la stessa cosa, qui stiamo parlando di guarigione di "malat­tie dello spirito" così come sono i disturbi psicologici.
    Senza essere facilmente ottimisti o utopistici, basti qui ricordare come da un diverso atteggiamento terapeutico verso questi disturbi possano scaturi­re esiti differenti. Non è infrequente, così, osservare come anche le più gravi patologie mentali, con una base eziologica sicuramente organica, possano avvantaggiarsi di un atteggiamento terapeutico improntato alla valorizzazione di quelle pur minime potenzialità residue che, anche nei casi più gravi, risultano conservate. Certamente questi sono casi che non guariranno, nel senso letterale del termine; ma sono suscettibili di migli­orare notevolmente e, anche se non raggiungeranno quella che comunemente può essere definita come "normalità psichica", rispetto al grado di gravità che presentavano all'inizio potranno trovare contenute alcune delle loro difficoltà più rilevanti.
    Al contrario, l'idea che non vi sia nulla da fare può far peggiorare note­volmente la situazione anche nel caso di un semplice e lieve disturbo del carattere. La depressione, che sembra oggi aver sostituito e superato per incidenza e diffusione quasi tutte le patologie mentali del passato, è appunto un di­sturbo psichico che può essere curato in molti modi (nel senso che si avvantaggia di un approccio terapeutico multidisciplinare). Ma, al di là di quello che sarà il trattamento prevalente, rimane il fatto indiscutibile che al depresso deve essere restituita fiducia nel futuro, fiducia nelle proprie capacità, certezza di riuscire a superare le difficoltà del momento presente ecc. e si tratta di sentimenti che possono riattivarsi solo allorché si ripristina nell'individuo la possibilità di ricominciare a "sperare".

    La "speranza" diviene quindi il vettore su cui possono poggiare tutti gli altri interventi terapeutici: se viene a mancare quella, questi ultimi posso­no risultare inutili; laddove questa capacità di "sperare" in un futuro migliore risulta essere consolidata, invece, tutti gli altri interventi agevole­ranno il percorso verso il miglioramento.
    La "speranza", che sappiamo quale ruolo cruciale svolga all'interno della religione, risulta essere un sentimento altrettanto indispensabile per ogni progresso terapeutico nel campo delle malattie dello spirito quali sono appunto i disturbi psicologici. È appunto per questo che una solida "mentalità religiosa" può risultare di notevole aiuto nel cooperare in questa difficile impresa di recupero delle proprie potenzialità minata da disturbi depressivi.
    Deve trattarsi, ovviamente, di una religiosità matura e non dogmatica [paradossalmente questa affermazione è poco ovvia, infatti: cosa significa?]. Che presuppone la superiorità dello "spirito" sulla "materia" (a cui facilmente può ricollegarsi l'idea che la psiche possa avere una certa supremazia sul corpo).
    Volendo ora tirare le fila di quanto detto fino ad ora prima di avviarci verso le conclusioni, è opportuno innanzitutto ribadire quanto abbiamo detto all'inizio: di fronte alla religione, la psicoanalisi non deve (e non può) entrare nel merito del contenuto di verità dei fenomeni religiosi. Non è questo il suo compito.
    Ciò che le interessa è lo studio e la conoscenza della religiosità dal punto di vista strettamente psicologico, dal momento che questa è un'esperienza psicologica e non potrebbe essere diversamente.
    Più specificamente, dal punto di vista psicoanalitico, ci si può chiedere, ad esempio, se la "religiosità" sia un fattore di promozione o di ostacolo del benessere psicologico di un individuo.
    Se, allora, volessimo ora tentare di rispondere, nelle conclusioni di questo nostro discorso, a questo quesito specifico non potremmo fare a meno di rilevare, da principio, che una certa forma di "religiosità", oltre ad essere di ostacolo al benessere psicologico, funge addirittura da fattore patogeno in certi casi, alimentando il "senso di colpa" ed i disturbi psicologici che a questo possono ricollegarsi.
    In questo caso ci stiamo riferendo, ovviamente, ad una "religiosità" arcai­ca e primitiva o, se si preferisce, infantile ed immatura, dove l'adesione a certe norme di vita o a certi principi non viene fatta per autentica convin­zione ma esclusivamente per paura di un eventuale "castigo".
    Una siffatta forma di religiosità, oltre a diventare fonte di sofferenza psichica per l'individuo a causa dello sviluppo del "senso dì colpa" e del bisogno auto-punitivo che da questo ne deriva, può altresì diventare la base per lo sviluppo di un vero e proprio "atteggiamento persecutorio" verso chi non si attiene con lo stesso severo rigore agli stessi principi. In altre parole, questa forma di religiosità è quella improntata all'intolle­ranza: intolleranza sia verso sé stessi per le più piccole imperfezioni sia verso gli altri che non si adeguano altrettanto dogmaticamente alle stesse norme di vita.
    Al contrario, una "religiosità" matura e consapevole, basata su scelte di vita cui ci si attiene non per paura del castigo ma per reale convinzione, oltre a favorire il benessere psicologico, può esercitare addirittura una vera e propria azione terapeutica allorché aiuta l'individuo in difficoltà a continuare a sperare e ad avere fiducia in un futuro più roseo e migliore, diventando la base per uno sviluppo armonico della stessa integrità dell'Io. Questa "religiosità" è, al contrario dell'altra, improntata alla tolleranza, al perdono e all'amore e, così come mitiga i bisogni di auto-punizione verso sé stessi, è incline a tollerare anche negli altri la possibilità che si possa sbagliare ed essere colti in fallo. È una "religiosità", quindi, che non resta intransigentemente chiusa al confronto con l'altro ma è aperta al dialogo: che, in linguaggio religioso, si può anche definire "ecumenica", laddove, in termini psicoanalitici, rileviamo che è flessibile, aperta, non-­rigida ecc.
    Si tratta di valori che sono tutti presenti nel messaggio evangelico cristiano ("chi è senza peccato scagli la prima pietra!") ma che, talvolta, così come è tristemente accaduto nella stessa storia della chiesa, anche nell'esperienza del singolo credente possono ri-precipitare nell'oscurantismo e la contrap­posizione tra i due diversi modi di essere "religiosi" che abbiamo descritto può ben essere esemplificata facendo riferimento alla spietatezza dell'inqui­sitore Torquemada, da un lato, e all'umiltà di San Francesco, dall'altra.
    Non è allora infrequente, nel caso di trattamenti psicoterapeutici o psicoa­nalitici di persone religiose, assistere, parallelamente al recupero del benessere psicologico e all'attenuazione dei disturbi per cui avevano chiesto aiuto, ad una maturazione "evolutiva" del loro stesso modo di porsi nei confronti dei valori religiosi, da un'iniziale forma di adesione "dogmatica" e rigida allo sviluppo di un sentimento "religioso" vissuto in modo sereno, autenticamente cristiano, improntato all'amore.
    È questo il caso in cui si ha la netta sensazione che la psicoanalisi e la religione si trovino a percorrere strade parallele che, anche se rimangono, come è giusto che sia, distinte e separate per quanto attiene alle loro diverse e specifiche finalità, nondimeno sembra che, in un punto lontano dell'orizzonte, tendano a sovrapporsi: un punto vicino all'infinito, là dove sembra che riconciliarsi con sé stessi e riconciliarsi con Dio siano, in sostanza, una cosa sola!

     

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