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  • Conferenza del 20 dicembre 2002

    LA MENOPAUSA: UNA NUOVA REALTÀ!

    Prof. Gaspare CARTA

    20 dicembre 2002

    Il fatto di nascere con un corpo, quindi con una costituzione materiale, con una materia corporea già determinata non può essere irrilevante. Del resto la sessualità ci viene assegnata, il corpo viene immediatamente percepito come corpo maschile o femminile e la modalità con cui i genitori e la società ci ricevono è molto diversa a secondo del nostro sesso.
    Potremmo senz'altro dire che, da un certo punto di vista, noi riceviamo un corpo già significato dalla società, dalla cultura della quale viviamo e poi, all'interno di queste coordinate, possiamo elaborare un corpo nostro.
    L'identità corporea non è mai data una volta per tutte, come rivela l'ansia con cui ci guardiamo allo specchio, ci vediamo sempre diversi e interroghiamo specchi diversi, proprio per cercare di ricostruire una identità corporea che sempre ci sfugge.
    Il nostro corpo è sessuato, ma deve sensualizzarsi. Ognuno di noi nasce con dei caratteri dati, con degli "attributi" maschili o femminili, ma la virilità e la femminilità attiene alla soggettività, è un modo di rispondere alle sollecitazioni della vita. Ma avanziamo per gradi.
    Possiamo partire col dire che la menopausa è una esperienza della donna nell'età matura; la menopausa è una parola coniata nel 1872 da Karl Ernest von Baer
    ; la menopausa, senza arrivare alla posizione che nega l'aspetto fisico, ha anche una dimensione psichica che va studiata e analizzata.
    Osserviamo il corpo per comprendere questo processo, descrivendo, brevemente, il funzionamento dell'apparato genitale. Il sistema endocrino consiste in una serie di piccole ghiandole, esse liberano potenti sostanze chimiche chiamate ormoni, che scorrono nel sangue e raggiungono tutti gli organi. Gli ormoni si comportano come messaggeri verso le cellule. Senza questi messaggi, gli organi interni, inclusi quelli che costituiscono il sistema riproduttivo, non sarebbero in grado di compiere la loro attività giornaliera.
    Il sistema riproduttivo riceve messaggi principali da tre ghiandole endocrine:

    l'ipotalamo,
    la pituitaria e
    le ovaie.
    Sia l'ipotalamo, che è grande come una noce, sia al pituitaria, che è grande come un cece, si trovano nel cervello. Le ovaie sono collocate ai lati dell'utero, proprio al di sopra delle tube di Falloppio, che sono condotti di forma tubolare.
    L'ipotalamo è la ghiandola principale e funziona come nesso di controllo tra il cervello e il sistema endocrino. Regola molte funzioni interne del corpo, dalla temperatura alla ritenzione idrica, ed è connessa ai bisogni primari quali la fame, la sete. Gioca anche un ruolo dominante nella riproduzione, dirigendo il ciclo mestruale mensile. L'ipotalamo risponde anche allo stress e al trauma e questo spiega perché alcune donne abbiano cicli irregolari o addirittura possano, in momenti di stress fisico o emotivo, smettere di avere le mestruazioni per un certo periodo.
    La pituitaria fa da intermediario dell'ipotalamo, traducendo messaggi della ghiandola principale alle diverse ghiandole endocrine del corpo. Quando per esempio, l'ipotalamo segnala alla pituitaria di dare inizio al ciclo mestruale, la ghiandola-intermedia risponde rapidamente, inviando due dei suoi ormoni alle ovaie.
    Le ovaie sono produttori principali degli ormoni sessuali femminili; gli ormoni più importanti sono l'estrogeno e il progesterone. Entrambi questi ormoni svolgono un ruolo importante nella vita fisica ed emotiva della donna.

    La menopausa significa l'esaurimento degli ovuli non è un fenomeno che si verifica da un giorno all'altro; anzi comincia addirittura prima della nascita.
    Nella donna le ovaie producono, stimolate da altri ormoni, estrogeni, nella prima fase del ciclo, e progesterone nella seconda, cioè dopo la maturazione dell'ovulo e la sua "caduta" nell'utero.
    I primi hanno la funzione di far maturare l'ovulo, i secondi hanno il compito di favorire l'impianto dell'ovulo nell'endometrio (il tessuto spugnoso che riveste l'utero) nel caso di gravidanza.
    Questi ormoni sostengono un benessere generale ed in particolare permettono una buona circolazione del sangue nelle arterie e nelle vene, pelle morbida e senza rughe, sonno regolare, la disintossicazione di tutto il corpo, ma soprattutto della zona pelvica quando si verifica la mestruazione, una buona lubrificazione vaginale e mantengono compatta la massa ossea.
    Estrogeni e progesterone iniziano ad essere prodotti con le prime mestruazioni, diminuiscono verso i 35 anni, poi ancora dopo i 45 per arrivare a non essere più prodotti dalle ovaie intorno ai 50 anni.
    Durante la pre-menopausa si possono verificare flussi abbondanti, o scarsissimi, l'ovulazione non avviene più tutti i mesi e le mestruazioni possono diradare.
    Seri disturbi da menopausa sono stati riscontrati in donne adulte alle quali sono state asportate chirurgicamente le ovaie. Il corpo si trova improvvisamente privato di un elemento e la reazione patologica può essere giustificata.
    Ma nelle donne sane la trasformazione è lenta, inizia a 35 anni per terminare, in media a 50; l'organismo ha modo di adattarsi alla nuova situazione ed in questo è stato aiutato dalle ghiandole surrenali, che si fanno carico di produrre ormoni che verranno trasformati, da tessuto adiposo, in estrogeni.
    Nella compiutezza femminile, rappresentata dalla cessata ovulazione, alcuni disagi si presentano, ma il prendersi cura di sé, può aiutare a sostenere i passaggi, che il corpo nella sua fisiologicità, conquistata psichicamente, ci presenta. Essi hanno una connotazione che riguarda il reale psichico del corpo, la materia inconscia delle nostre pulsioni.
    C'è oggi la possibilità di continuare per almeno dieci anni la mestruazione artificiale, prodotta dall'assunzione della così detta pillola, specifica per gli anni della menopausa, da assumere sotto controllo medico.
    Vi sono anche donne che accettano la menopausa con rassegnazione nel sentiero della propria esistenza, altre preferiscono lasciare il proprio corpo alla sua naturalità al suo esprimersi. Se vi è una ipotesi positiva della relazione della donna rispetto alla menopausa ve ne sono alcune più complesse. Vorrei precisare però che la complessità non è imputabile alla menopausa in quanto tale, quanto invece al tipo di struttura propria del soggetto.
    Infatti, verrebbe ora da chiedersi: che fantasia produce la donna nell'atto sessuale sganciato dalla generatività? Brevemente possiamo dire che l'esperienza delle mestruazioni, così pure quella della menopausa, hanno anche un riscontro nel sentiero della soggettività. Le mestruazioni sono il presupposto della fertilità, di una sessualità legata alla generatività. Nell'essere umano però, al contrario che negli animali, l'esplicazione dell'atto sessuale può essere sganciato dalla riproduzione, ma quando la donna è fertile la sua potenziale fecondità incombe su di lei. Per esplicare una sessualità senza fecondazione sono necessari accorgimenti denominate, pratiche anticoncezionali.
    Quando spontaneamente, o artificialmente, viene rimossa la potenzialità della fecondazione, alla donna resta solo la propria sessualità senza generatività. La differenza tra menopausa e questa situazione e quella della donna che segue pratiche anticoncezionali consiste, a livello psichico, nella irreversibilità della situazione.
    L'aspetto particolare dell'evento menopausa - a differenza del concepimento, che ferma il carattere contingente e accidentale di un incontro, tra i sessi -, è l'incontro per eccellenza con la femminilità.
    La menopausa evento naturale nel ciclo femminile è spesso ancora oggi vissuto dalle donne con timore e come minaccia. La menopausa, come altri tabù, incontra quei fantasmi che ogni essere umano porta con sé rimossi. La menopausa pone la donna di fronte al senso della caducità per sfuggire alla quale può intraprendere, quello che J. Hilman chiama: Il mito dell'analisi (Adelphi, Milano 1979), nella pretesa, così, di vincere il tedio.

    La menopausa è una esperienza della donna nell'età matura, una parola coniata nel 1872 da Karl Ernest von Baer, un evento psichico da studiare e da elaborare.

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  • Cineforum del 16 dicembre 2002

    Film:

    S. ALFONSO MARIA DE' LIGUORI

    Interverranno la Prof.ssa Nadia Vacchiano e
    l'Ing. Ciro Maddaloni

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  • Conferenza del 13 dicembre 2002

    3) L'IMPEGNO POLITICO DEI CATTOLICI
    IN ITALIA DAL NON EXPEDIT
    AI GIORNI NOSTRI.
    LA PRESENZA E IL RUOLO DEI CATTOLICI
    NELL'ITALIA REPUBBLICANA

    Dott. Benedetto COCCIA

    13 dicembre 2002
    Il 1848 rappresentò un anno di grandi rivolgimenti. In Italia scoppiarono numerose rivolte antiborboniche e antiaustriache. Tutti richiedevano una Costituzione, che sancisse le libertà fondamentali e consentisse al popolo di essere rappresentato. Nel gennaio del 1848 il Re di Napoli, Ferdinando di Borbone, decise autonomamente di concedere la Carta Costituzionale. Questo evento portò in febbraio che sia il granduca di Toscana che il Pontefice concedettero a loro volta la Costituzione, e nel marzo dello stesso anno anche Carlo Alberto di Savoia, Re di Sardegna, concesse lo Statuto Albertino.
    Nello stesso anno si tennero le prime elezioni del Parlamento sabaudo, che prevedeva che una parte dell'organo legislativo, la Camera dei Deputati, fosse eletta direttamente dal popolo; allora poté votare meno del 2% della popolazione residente nel Regno sardo.
    Dopo l'unità d'Italia (1861) lo Stato necessitava di una Carta Fondamentale, per sancire la liberal - democrazia raggiunta. Si contrapposero due tendenze:

    Quella mazziniana: che voleva una Costituzione diversa dallo Statuto, votata direttamente dal popolo e più avanzata.
    Quella cavouriana: che voleva estendere a tutta l'Italia lo Statuto.
    Prevalse la seconda (cosiddetta piemontizzazione dell'Italia).
    Questo portò a numerosi disagi, soprattutto nel sud d'Italia, dove non si era in grado di sostenere una tale amministrazione.
    Le riforme liberali: fino al 1876 le elezioni politiche si basavano su collegi uninominali: il territorio nazionale veniva diviso in un numero di collegi elettorali pari al numero di candidati da eleggere, in ogni collegio si poteva eleggere un solo rappresentante. Se in un collegio nessun candidato avesse raggiunto la maggioranza assoluta si andava al ballottaggio fra candidati maggiormente votati. Si favorivano perciò i candidati conosciuti. La base elettorale era il 2% della popolazione.
    Nel 1882 una nuova legge elettorale estese il diritto di voto (suffragio allargato) eliminando i limiti di censo, ma non quelli di analfabetismo. Al posto del sistema uninominale s'introdusse un complicato meccanismo fondato su uno scrutinio fra liste concorrenti. Tutto questo venne dalla sinistra e dai ceti meno abbienti.
    I decenni successivi videro un'instabilità a livello governativo (crisi della politica liberale). Tipico di questa fase è il trasformismo, tendenza dei governi a ricercare l'appoggio di forze politiche eterogenee. Le elezioni erano sempre più "pilotate", corrotte. Per evitare questo si pensò di ritornare ad una forma di governo monarchica e costituzionale (proposta di Sonino), ma questo tentativo del Governo Pellaux non passò al Parlamento. Si arrivò così alle elezioni anticipate.
    L'età giolittiana: fu un cambiamento radicale a confronto del periodo precedente. Le lotte proletarie che prima erano considerate come un affronto allo Stato ora iniziavano ad essere comprese. Giovanni Giolitti realizzò diverse riforme. Numerosi enti pubblici vennero creati tra, tra cui l'INA (Istituto Nazionale Assicurazioni) i cui proventi finanzieranno la cassa per l'invalidità e la vecchiaia dei lavoratori. Dando grande attenzione all'efficienza della burocrazia e della Pubblica Amministrazione, Giolitti favorì l'inserimento di esperti nei diversi settori sia al Parlamento che al Governo.
    Intanto il Partito Socialistico e le forze ispirate al marxismo crebbero d'importanza. Giolitti seguì una politica di tolleranza, anche verso le lotte operaie, non adottando nei loro riguardi provvedimenti repressivi. Giolitti riteneva, infatti, impossibile fare a meno del loro consenso per mantenere la liberal - democrazia. Questa mentalità del governo aumentò il trasformismo. Giolitti costituì 3 ministeri dal 1903 al 1914.
    Nel 1913 le elezioni avvennero con suffragio universale maschile, purché avessero prestato servizio militare (introduzione di simboli elettorali per gli analfabeti). In quest'occasione Giolitti stipulò un accordo fra liberali e cattolici, il famoso Patto Gentiloni, dove i cattolici si impegnavano a votare i laici dove mancassero candidati cattolici o dove fosse presente il rischio di una vincita della sinistra. I liberali a loro volta s' impegnavano a tutelare la scuola privata e ad opporsi ad eventuali provvedimenti particolarmente sfavorevoli per la Chiesa (con tale patto venne a meno la storica separazione fra Stato e Chiesa). Comunque sia nelle elezioni del 1913 vi fu un forte progresso dei rappresentanti della sinistra. Giolitti nel marzo del 1914 si dimise dal Governo, qualche mese più tardi sarebbe iniziata la prima Guerra Mondiale.

    Contributo di Umberto Gentiloni
    Nei mesi che abbiamo alle spalle non sono mancati dibattiti, prese di posizione e polemiche con riferimenti espliciti alla storia e alle sue possibili interpretazioni. Si è passati dai giudizi sulla stagione della Resistenza e della fondazione della repubblica ai temi dell'identità nazionale e delle sue debolezze vere e presunte. Un crescendo continuo che non ha risparmiato l'impostazione e la stessa libertà di scelta dei libri di testo, il rapporto con le due superpotenze nei decenni della guerra fredda, il significato stesso del Risorgimento e del processo di unificazione italiana, il ruolo e l'eredità delle diverse culture politiche dell'Italia repubblicana.
    Il confronto fa bene alla storia perché sottopone ricerche e interpretazioni al vaglio del pluralismo dell'informazione e del sapere, tuttavia troppo spesso non si è trattato di una dialettica tra posizioni o approdi storiografici. La polemica politica ha orientato (non ci sarebbe di per sé nulla di male) e piegato giudizi e riferimenti definendo un campo di indagine e una metodologia che poco hanno a che fare con la riflessione storica o con le differenziazioni storiografiche. Non mi sembra si possa parlare di "uso pubblico della storia", che è questione seria e legata allo sforzo di comprensione che anima la ricerca di chi si occupa di storia. È prevalso l'obiettivo di sovrapporre senza attenzioni metodologiche o impostazioni verificabili il passato e il presente, un "presente come antistoria" che ha spesso penalizzato gli spazi di una discussione feconda e non conformista.
    Il limite non è quello del rapporto tra storia e attualità, o se vogliamo tra storia e politica, inevitabile elemento costitutivo della conoscenza storica e della sua evoluzione; ma quello della artificiosa confusione di ruoli (tra giornalisti, politici e storici) e soprattutto di metodologie e linguaggi. Tutto è sembrato appiattirsi nella dimensione della polemica spicciola del giorno per giorno senza che la fatica dell'approfondimento, della ricostruzione di realtà e fenomeni complessi potesse avere un qualche spazio credibile. Non si può né si deve generalizzare, ma l'impressione prevalente delle "polemiche a sfondo storico" è stata quella della ricerca (spesso celata sotto dichiarate intenzioni più serie) di una conferma immediata, di un vantaggio politico da poter "spendere" nel grande circo della comunicazione; giudicare e talvolta provocare senza porsi il problema della comprensione o della innovazione (la tanto controversa chimera della "revisione") di tendenze o giudizi storiografici.
    Prendiamo l'ultima - in ordine di tempo - disputa sul massacro della divisione Acqui nell'isola di Cefalonia. Non è questa la sede per ricostruire il merito dell'accaduto e del dibattito presente o passato, ma ciò che non può non colpire è la contraddizione tra la critica più volte emersa in questi anni verso le istituzioni poco attente al necessario rafforzamento di un quadro di identità nazionale condiviso (colpevoli di non aver costruito un universo comune di appartenenza) e la reazione al viaggio del presidente della Repubblica che avrebbe occupato con la sua iniziativa prerogative e compiti degli storici, sovrapponendo il suo ruolo istituzionale di più alta carica dello stato con le funzioni della ricerca o della memoria dei protagonisti. È sembrato un corto circuito pericoloso che ha prodotto il risultato di chiudere gli spazi di una riflessione seria, non incidentale per far prevalere posizioni cristallizzate e contrapposte. Inizialmente non era stato così, penso al commento di Claudio Pavone e ai temi di un possibile dibattito da aprire, di un "revisionismo" serio capace di guardare al futuro: è possibile retrodatare l'inizio della stagione della Resistenza affiancando alle vicende romane di Porta San Paolo l'eccidio di Cefalonia, e ancora quali riflessioni sulla partecipazione dell'esercito italiano, sul ruolo della monarchia sabauda e sui silenzi della storiografia ufficiale militare su episodi così significativi? Un dibattito innovativo capace di tenere insieme gli effetti delle iniziative istituzionali con le ripercussioni dei romanzi sulla vita a Cefalonia, riaprendo temi di fondo sulle fonti di documentazione o sul rapporto tra storia e memoria, non ha avuto la forza (fino ad oggi) o la capacità di farsi largo.
    Se Cefalonia rappresenta l'esempio più vicino e forse più emblematico delle difficoltà e dei limiti del dibattito sulla storia e sui suoi usi, altri aspetti lo hanno in vario modo attraversato. A più riprese si è posto l'accento sul ruolo e sulla presenza del movimento cattolico nei decenni dell'Italia unita. Nell'estate 2000 il dibattito è diventato acceso quando sono state proposte letture al limite del paradosso sul Risorgimento di impronta liberale anticattolico e anticlericale (meeting a Rimini di Comunione e liberazione e mostra sui limiti e sulle responsabilità del processo di unificazione ) o quando le beatificazioni controverse di Giovanni Paolo II (mi riferisco soprattutto a quella di Pio IX) hanno riacceso polemiche che sembravano superate da tempo. Il XX settembre si è quasi improvvisamente rianimato di quella divisione clericali-anticlericali che sembrava essere stata sconfitta con il concorso di tutti, da una parte e dall'altra.
    Ma dietro alle polemiche pretestuose si cela una questione ben più interessante e attuale che investe il tessuto della convivenza civile e le stesse debolezze vere o presunte dell'identità nazionale italiana. In occasione della rievocazione fiorentina del Gabinetto Vieusseux, il confronto indiretto tra Pietro Scoppola e Indro Montanelli ha avuto come oggetto il ruolo e la presenza della chiesa e dei cattolici nella vicenda storica italiana, il rapporto fra coscienza religiosa e coscienza nazionale. Con chiarezza sono emerse posizioni comuni e punti di contrasto. Montanelli ha insistito sull'universalismo cattolico come fattore di freno e di offuscamento della nostra identità, "la Chiesa impedì all'Italia di diventare una Nazione col suo Stato laico e agli italiani di diventare dei cittadini muniti di una coscienza civile": un'analisi che Scoppola condivide - almeno nelle sue linee di fondo - pur contrastandone l'utilizzo, chiedendo di andare oltre la dimensione descrittiva perché un giudizio del genere "non è che non sia vero [...] ma non basta per comprendere il passato". Il conflitto tra stato e chiesa, tra coscienza religiosa e coscienza civile ha attraversato, com'è noto, l'intera parabola postunitaria. Ma è riduttivo limitarsi a constatarlo, senza comprenderne le ragioni oggettive. Ed è proprio la comprensione di dinamiche e interpretazioni sul ruolo dei cattolici in Italia a rendere la materia irriducibile a una polemica fine a se stessa o peggio ispirata da finalità di altro tipo, magari pretestuose. Due mi sembrano gli aspetti "preliminari" che investono e condizionano lo sforzo di un'analisi seria sul ruolo e sulla funzione del movimento cattolico.
    Il primo riguarda l'uso delle terminologie di riferimento. Il rapporto con la sfera religiosa rende l'oggetto dell'indagine storiografica meno definibile in senso univoco, quasi "sfuggente": la chiesa, i cattolici, i cristiani, il movimento cattolico, tutti termini che spesso nella polemica spicciola vengono utilizzati in modo interscambiabile senza la giusta attenzione al contesto e alla prospettiva storica (tralascio volutamente i limiti e le incongruenze delle metodologie prevalenti). L'uso impreciso dei termini allontana lo spazio di un confronto serio e rigoroso producendo confusioni e sovrapposizioni tra la storia e la storiografia, tra la politica e la religione sfumando i contorni dell'oggetto su cui si vorrebbe intervenire. Quando si fa riferimento ad una presenza religiosa - per esempio - non la si può identificare con quella cattolica senza tener conto del ruolo delle chiese riformate o della comunità ebraica. E anche il concetto di identità o di coscienza nazionale non è neutro o statico: il tempo modifica e definisce i concetti di patria e di nazione che non hanno senso al di fuori del contesto che li delimita.
    Il secondo aspetto investe il tema delle difficili periodizzazioni che caratterizzano lo studio del movimento cattolico. Da un lato è impensabile affrontare le tematiche nuove dell'identità e del ruolo dei cattolici nei processi di nazionalizzazione senza un'ottica di lungo periodo, tenendo quindi conto delle tematiche ottocentesche e dei percorsi differenziati dell'universo cattolico italiano; dall'altro i decenni della Repubblica pongono domande inedite e introducono fratture tali da avvicinare (non solo in senso temporale) i termini di un'analisi possibile . Il ruolo dei cattolici nella Resistenza, le tematiche legate al "vissuto" degli italiani come componente di una cittadinanza comune, la parabola e i paradossi della Democrazia cristiana, gli effetti e le dinamiche del Concilio Vaticano II sull'arcipelago cattolico e sulla società e la cultura di allora sono fattori che negli ultimi anni hanno caratterizzato l'attenzione storiografica con una produzione di studi (ancora agli inizi) di vario tipo spesso ignorati dal confronto degli ultimi mesi. Il tratto unificante è stato ed è tuttora la ricerca attorno al ruolo complesso che la coscienza religiosa ha svolto nella storia della Repubblica. Può essere utile distinguere il piano della polemica da quello della riflessione scientifica soprattutto cominciando a orientarsi nella storiografia sul movimento cattolico e sul ruolo dei cattolici nella nostra storia. Non voglio sostenere che non ci sia contatto o non debba esserci interazione tra i due livelli (riflessione storica e dibattito sull'attualità), ma penso che la confusione metodologica e dei piani (tra passato e presente) non produca passi avanti e rischi di riproporre cliché storiografici che assomigliano più a delle caricature che a un dibattito serio e perfettibile; il rapporto tra storia e politica e tra passato e presente non può che essere assunto criticamente come punto di vista e come oggetto stesso dell'indagine, come parte costitutiva del lavoro dello storico.
    Se si tralasciano gli aspetti più polemici o le prese di posizione più provocatorie sul ruolo dei cattolici nel processo di unificazione possiamo ricondurre gli studi più recenti attorno ad alcuni grandi temi o questioni (o se si vuole "piste di ricerca") che investono ruolo e funzione del movimento cattolico.

    L'indagine sul risorgimento e sulle sue modalità di realizzazione ha da tempo superato gli approcci esclusivamente nazionali per interrogarsi sulla comparatistica continentale. Nel nostro caso lo studio e la ricerca sul risorgimento italiano ha senso se si inserisce nell'ottica dello sviluppo dei processi di nazionalizzazione e di costruzione delle nuove nazioni nella seconda metà del XIX secolo (Italia, Germania, Belgio, Romania, Ungheria solo per citare i casi più noti). Il contributo dei cattolici non si può leggere esaustivamente dentro l'opzione transigenti-intransigenti riproponendo un improbabile risorgimento anticattolico e quindi condannabile , ma va letto nel quadro delle forme che le diverse componenti politico-culturali dell'Ottocento italiano seppero dare ai percorsi di una lunga e controversa nazionalizzazione. Sin dalle classiche Interpretazioni del Risorgimento di Walter Maturi emergono - nelle pagine dedicate a Ettore Passerin d'Entrèves - i temi legati alla centralità degli aspetti religiosi e della indissolubile compresenza degli stessi nelle dinamiche risorgimentali . Il percorso di Cavour e il peso del periodo del "risveglio ginevrino", l'influsso della cultura ginevrina degli anni '30 del XIX secolo sulla sua formazione (gli studi di Francesco Ruffini ripresi da Jemolo) rappresentano una premessa imprescindibile per impostare in modo serio e efficace il tema dei rapporti tra stato e chiesa nei primi anni del Regno d'Italia (penso alle pagine di Rosario Romeo ). Sono decenni di studi e interpretazioni che scompaiono, non vengono presi in considerazione (quasi che su ogni tema o argomento si dovesse ricominciare da zero) nell'incalzante ritmo della polemica fine a se stessa, nello spazio di pochi giorni.
    Le nuove domande sul ruolo dei cattolici sono in parte il ribaltamento dell'approccio che ha caratterizzato le prime significative stagioni di studi del secondo dopoguerra. Per decenni si è indagato sul movimento cattolico come movimento degli "esclusi", cercando nella sfera dell'intransigenza quei nessi con il popolarismo prima e con il ruolo centrale della Democrazia cristiana nell'Italia repubblicana poi; il movimento intransigente diventava il tessuto organizzativo (esclusivo) della presenza cattolica nella società italiana. Oggi la riflessione più innovativa mette al centro le domande sull'identità e sulle appartenenze politico culturali. In questo contesto la diatriba transigenti-intransigenti è utile se aiuta a cogliere i limiti dell'intransigenza e del rifiuto della modernità e della democrazia; il freno che l'atteggiamento simboleggiato dal non expedit ha prodotto al formarsi di un'identità condivisa e di forme di rappresentanza politica (e anche di educazione alla democrazia) in grado di allargare la sfera della partecipazione . La stagione di risposta all'impostazione crociana contenuta soprattutto nella Storia d'Italia dal 1871 al 1915, che ridimensionava fortemente il ruolo dei cattolici , sembra conclusa e tornano di attualità e di grande interesse le conclusioni contenute nella lezione di Arturo Carlo Temolo, quando spiegava che il conflitto tra stato e chiesa era parte di una riflessione più generale sulle modalità di costruzione e di sviluppo del nostro paese . Su questa scia studi e interpretazioni hanno caratterizzato gli anni più recenti, anche con ipotesi diverse, basti pensare ai lavori di Guido Verucci, Andrea Riccardi, Francesco Traniello e Guido Formigoni.
    Il tema più difficile e allo stesso tempo più interessante: il rapporto della chiesa con la modernità o se si vuole i percorsi e i processi di secolarizzazione. Sono riflessioni contenute negli studi ormai decennali, di Verucci, Scoppola, Miccoli, Traniello (solo per citare i principali) che hanno in modi diversi affrontato le questioni dello sviluppo di un rapporto inedito tra chiesa e democrazia, tra società di massa e fenomeno religioso . Sono piste di ricerca che investono l'immagine e la sostanza stessa delle analisi sul XX secolo; spesso tralasciate anche dalle produzioni storiografiche più recenti, e non soltanto quelle italiane. Quale il rapporto tra chiesa e democrazia? Tra chiese e potere politico? Come si definisce il percorso cattolico pre e post conciliare rispetto ai temi dell'identità nazionale e della funzione universale del messaggio religioso? Quale il ruolo attuale della chiesa di fronte alla crisi delle certezze e dei riferimenti del passato? La chiesa è l'unico fattore che unifica il paese e riempie vuoti altrui, uscendo rafforzata dalla crisi di questi anni (Bodei) ? O al contrario la chiesa ha svolto e svolge un ruolo negativo perché si oppone alla definizione progressiva di una statualità nazionale, sin dai tempi della controriforma (Schiavone, Galli della Loggia)? Tutti interrogativi che accompagnano, e presumibilmente accompagneranno a lungo, la riflessione storiografica.

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  • Incontro del 9 dicembre 2002

    DECALOGO PER IL SUCCESSO DELLA COPPIA

    Dott.ssa Elisabetta ANDREOLI
    Prof. Pier Giorgio FOGLIO BONDA

    9 dicembre 2002
    "DECALOGO" per il successo della coppia: CONDIZIONI INDISPENSABILI e SUFFICIENTI per la realizzazione di un COSTRUTTIVO e SODDISFACENTE rapporto di coppia.

    Entrare pienamente nel rapporto delineando, scegliendo, decidendo e realizzando progetti e prospettive "comuni".
    Cercare esplicitamente e saper godere consapevolmente la possibilità di avere momenti di intimità (in tutti gli "ambiti" e non solo in quello sessuale), stando serenamente e gioiosamente da soli tra i due.
    Stimolare consciamente, sistematicamente ed esplicitamente la stima e la valutazione di sé stesso e dell'altro/a.
    Sottolineare le qualità e gli aspetti obiettivi di valore dell'altro/a, soprattutto (anche se non solo) quelli che sono complementari ai propri.
    Promuovere sistematicamente canali di comunicazione, verbale e non verbale, reciproca; ponendo però particolare attenzione affinché anche quella verbale sia sempre e comunque adeguatamente presente1.
    Interessarsi autenticamente per gli obiettivi, le aspettative, i progetti e l'affermazione (personale e socio-professionale) dell'altra/o, sapendo manifestare adeguatamente e sistematicamente questo interessamento.
    Riproporre frequentemente, a se stessi e al partner, i ricordi del passato comune, non solo quelli relativi ai momenti felici e di successo; ma anche quelli riferiti ad esperienze tristi, conflittuali e di insuccesso, che si sono potute superare produttivamente come conseguenza dell'interesse e dell'impegno reciproco.
    Essere sistematicamente e manifestamente onesti, sinceri e congruenti con il proprio partner, anche se non è necessario (e molte volte neppure produttivo!) essere costantemente, assolutamente e, soprattutto, non opportunamente "veritieri".
    Conoscere e saper "scoprire" le aspettative e i desideri dell'altro/a riferiti ad aspetti minuti ed anche "infantili", per riuscire a gratificarli opportunamente e in maniera da lui "inaspettata" (non ricordarsi dei bisogni e dei desideri dell'altro solo quando li esplicita o esclusivamente nei "giorni comandati": feste, anniversari,...).
    Desiderare e saper "perdere del tempo" insieme, programmando e vivendo frequenti e non sistematici momenti di totale "relax", durante i quali l'unica attività prevista sia quella di compartire con l'altro/a il proprio tempo, senza nessuna fretta né impegni "esterni" di sorta.

    1 "Perché mai è necessario che le dica che la/lo amo o quali sono i miei sentimenti nei suoi riguardi ... se glieli dimostro costantemente con tutto quello che faccio per lei/lui?".

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  • Conferenza del 6 dicembre 2002

    LA CONQUISTA DELL'IDENTITÀ:
    INTELLIGENZA ED EMOZIONI

    Dott.ssa Silvana PANETTA

    6 dicembre 2002
    Riproduzione parziale dal n. 65 di "Noi Genitori e Figli" del 29/6/2003 di un testo di Mario Pollo.

    Disorientati, confusi, senza modelli. Sono numerosi gli adolescenti italiani che si rivolgono a una persona di fiducia - può essere il medico di famiglia, lo psicologo del consultorio, un insegnante particolarmente vicino – per confessare la sensazione di non essere "normali". Di essere attratti, cioè, da individui dello stesso sesso.
    Molte famiglie partecipano della stessa angoscia: credono di cogliere delle "stranezze" nel comportamento dei figli maschi, ne sono spaventate e spesso non sanno a chi chiedere consiglio. Anche per rispondere a queste preoccupazioni abbiamo chiesto al pedagogista Mario Pollo di riflettere sull'identità sessuale maschile e sulla sua affermazione.
    Qualche tempo fa una ricerca condotta dal consultorio adolescenti dell'Università di Pisa metteva in luce il forte aumento di adolescenti maschi che ponevano agli operatori dei consultori la domanda: "Dottore, sono gay?".
    La grande maggioranza di quegli adolescenti ai successivi esami climici non manifestava il possesso di alcuna caratteristica omosessuale. Perché allora si ponevano questa domanda? Quale era l'origine di questo loro dubbio?
    L'ipotesi che avanzai in occasione della pubblicazione di quella ricerca per spiegare l'origine del dubbio era che questi adolescenti, probabilmente, non avevano incontrato nel loro percorso di crescita figure significative maschili di identificazione, a cominciare da quella paterna.
    Questo perché all'interno della socializzazione primaria, che è il processo attraverso cui l'essere umano costruisce la sua personalità e in cui giocano un ruolo fondamentale i processi di identificazione con la madre e con il padre, oggi si constata o l'assenza del padre o la sua presenza con un ruolo più assimilabile a quello materno che a quello tipicamente paterno. Se a questo si aggiunge che nella scuola, che nella socializzazione svolge un ruolo complementare a quello della famiglia, il bambino incontra quasi esclusivamente figure educative femminili, si comprende il perché un numero sempre maggiore di adolescenti viva una profonda incertezza nella comprensione e nella definizione della propria identità di genere.

    L'ECLISSE DEL MASCHILE SIA IN FAMIGLIA SIA NELLA SCUOLA

    Si potrebbe quasi parlare, in molti casi, di una sorta di eclisse del maschile sia nei processi educativi familiari che in quelli scolastici. A proposito di questi ultimi si deve, infatti, osservare che non vi sono quasi più maestri maschi e che anche il numero degli insegnanti maschi nella scuole medie inferiori si fa sempre più esiguo.
    Un bambino che già vive l'esperienza del padre assente rischia, quindi, di non incontrare mai figure educative maschili. Questo rischio il bambino lo corre anche in altri luoghi educativi, come quelli ecclesiali, dove, ad esempio, i catechisti sono quasi tutti di genere femminile.
    La scomparsa del padre e dei suoi sostituti dall'educazione sfocia nelle difficoltà che nell'adolescenza, età in cui si consuma la lotta per la conquista dell'identità, un numero sempre maggiore di maschi incontra nel definire la propria identità di genere.
    Molte omosessualità sono il risultato di questa identificazione mancata con il padre, o con un suo sostituto, favorite anche dal fatto che i modelli culturali socialmente dominanti oggi nei Paesi economicamente più sviluppati tendono a favorire, valorizzandole, le unioni affettive e sessuali sterili, con l'affermazione quindi di una sessualità che non ha al centro il dono della vita.

    IL PADRE E' TALE SOLO QUANDO ASSUME RESPONSABILITA' VERSO IL FIGLIO

    TALVOLTA E' IL MONDO ADULTO AD APPARIRE POCO ATTRAENTE

    Per capire l'attuale scarsa significatività degli adulti è necessario ricordare che la prima caratteristica che rende un adulto significativo agli occhi dei ragazzi e degli adolescenti è la sua capacità di essere se stesso al di là degli schemi in cui i ruoli sociali tendono a imprigionarlo. Infatti, l'adulto segue, quasi sempre, la prescrizione di vivere in funzione dei propri ruoli sociali: lavorativi, famigliari, politici, associativi, sessuali, relazionali, ecc. Il suo essere adulto sembra esprimersi esclusivamente nella capacità di essere fedele a questi ruoli. Ruoli che nella sintesi dell'esistenza personale diventano "il" ruolo. La fedeltà ad esso diviene una sorta di programma di vita che vincola le possibili scelte dell'adulto e, paradossalmente, blocca ogni sua possibile ulteriore trasformazione in senso evolutivo. In questo caso "il ruolo" diventa l'unica, o perlomeno dominante, fonte di identità.
    All'adulto, che non vuole essere prigioniero della parte che recita, si chiede di liberarsi progressivamente dai condizionamenti e dalle richieste del suo ruolo sociale.

    NECESSARIA LA RISCOPERTA DELLA RESPONSABILITÀ EDUCATIVA DEI PADRI

    Egli deve cercare, cioè, le ragioni della sua identità nella sua interiorità più intima e profonda e non solo nel suo apparire nella scena sociale. Un adulto capace di vivere questa ricerca di sé è un adulto che, nonostante tutte le sconfìtte e gli insuccessi cui può andare incontro, può essere assunto come modello.
    Specialmente se a questa ricerca egli aggiunge la capacità di vivere la propria vita come una storia il cui senso nasce dall'intreccio tra presente, memoria e sogno di futuro e in cui i ragazzi e gli adolescenti si sentono percepiti come futuro gravido di speranza; di confrontarsi con il mistero della morte e di accettare la propria finitudine; di trascendere il piano dell'utilità attraverso i valori e di accettare il mistero e lo scacco del dolore come porta stretta di accesso alla propria crescita umana; di dare attraverso il gioco dei limiti (norme e regole) una forma concreta all'espressione del desiderio delle nuove generazioni.
    Da quanto detto emerge chiaramente come una "prevenzione" dell'omosessualità, in particolare di quella maschile, così come una sua terapia, passi attraverso la riscoperta della responsabilità educativa degli adulti maschi e, quindi, dei padri. Una riscoperta capace di far sentire le nuove generazioni depositarie di un dono, che attraverso la generatività, biologica e spirituale, esse devono trasmettere al futuro. Questo signifìca necessariamente anche la riscoperta piena della sessualità come dono di vita.

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    Cos'è l'identità di una persona? Riconoscersi ed essere riconoscibili; essere riconoscibili, innanzi tutto, a sé stessi. W. James scriveva nel 1980: "Chiunque di noi destandosi dice: ecco di nuovo il mio vecchio me stesso, ecco il mio vecchio letto, la stessa vecchia stanza,lo stesso vecchio mondo". Già nel ritrovarsi al risveglio, ritornando alla realtà quotidiana dall'oblio del sonno e dal mondo variegato dei sogni, io, per così dire mi ritrovo, ... dunque io sono 'così': ri-eccomi". E inseparabile da un senso di auto-appartenenza, vi è un'auto-definizione, che è anche un'auto-descrizione. Questa auto-descrizione si apre però su un mondo di incertezze come alla domanda, ad esempio: è possibile cambiare identità? ma che, ora qui, possiamo solo fare un accenno.
    Già il trascorrere del tempo, e le tappe fisiologiche dell'esistenza ci espongono a questo problema. Ma la letteratura ci propone a numerose ipotesi bizzarre, non meno delle proiezioni basate sulle applicazioni possibili della realtà virtuale. Ma come ovviare al senso di precarietà del senso di identità? La serietà del quesito è confermata dal fatto che tutta la clinica moderna della mente ad indirizzo psicodinamico, erede delle formulazioni storiche di Freud e Jung, da alcuni anni ha posto al centro delle proprie preoccupazioni proprio questa tematica.
    La storia della psicoanalisi moderna è caratterizzata da un progressivo spostamento di attenzione della problematica del conflitto a quella della fragilità, che sul piano della valutazione in psicopatologia significa spostare l'attenzione dallo studio della vita psichica normale, che ha per confine la nevrosi a quello molto più critico che è sul confine della psicosi. Il campo in esame va dall' insicurezza ontologica (già formulata da Laing) allo studio delle difese narcisistiche e delle dinamiche dei rapporti di tipo narcisistico. Giovanni Jervisad esempio, avanza questa ipotesi circa la natura umana: tra i bisogni essenziali e primari sia da annoverare anche l'esigenza di costruire e difendere un'immagine di sé, dotata di una solidità minimale, che ci consenta di esistere senza dissolverci.
    Poiché, come i romanzieri e gli artisti sanno bene, nulla spaventa di più il subconscio della sensazione di essere assolutamente nessuno, e in questo annullamento dell'identità si lega alla paura di assumere un'identità aliena. Ed è altresì ovvio, secondo questa linea di pensiero, che il maggior senso di precarietà è accentuato dalla cultura della modernità che è soprattutto cultura del disincanto (Max Weber), dell'individualismo e delle opportunità molteplici, che altresì diventa in negativo la cultura dello sradicamento.
    Dobbiamo prendere atto che l'intelligenza basata sull'esercizio della pura razionalità costituisce soltanto un aspetto delle più generali capacità che permettono all'uomo di misurarsi con le diverse situazioni incontrate nella vita di tutti i giorni e di risolvere adeguatamente i problemi che esse implicano.
    Questo orientamento sembrerebbe essere confermato anche su un piano prettamente neurofisiologico: recenti studi effettuati dal portoghese Antonio Damasio dimostrerebbero che la maggior parte delle nostre scelte e decisioni non sono il risultato di una attenta disamina razionale dei pro e dei contro relativi alle diverse alternative possibili. In molti casi, infatti, le facoltà razionali verrebbero affiancate dall'apparato emotivo, il quale costituirebbe una sorta di "percorso abbreviato", capace di farci raggiungere una conclusione adeguata in tempi utili.
    La componente emotiva coinvolta nelle decisioni sarebbe anzi determinante nei casi in cui queste riguardano la nostra persona o coloro che ci sono vicini. A riprova delle sue tesi, Damasio riporta i casi di alcuni pazienti che, in seguito a danni neurologici subiti in determinate zone cerebrali, erano divenuti completamente incapaci di prendere una decisione, pur essendo perfettamente in grado di effettuare una valutazione corretta di tutti i fattori implicati. Occorre perciò introdurre la nozione di intelligenza emotiva che, già descritta da Howard Gardner nelle due forme, intrapersonale e interpersonale, è stata tuttavia sviluppata nei suoi molteplici componenti e conseguenze pratiche da Daniel Goleman, il quale distingue due principali sottocategorie:

    Le competenze personali, riferite alla capacità di cogliere i diversi aspetti della propria vita emozionale;
    le competenze sociali, relative alla maniera con cui comprendiamo gli altri e ci rapportiamo ad essi.
    Il cuore che pulsa, le mani sudate, il respiro affannato, il tremore degli arti che accompagna, ad esempio, sensazioni di intensa paura, sono correlati fisiologici molto evidenti dell'emozione. Infatti l'emozione rappresenta un comportamento di risposta profondamente legato alle motivazioni, che si manifesta a tre diversi livelli:

    psicologico
    comportamentale
    fisiologico
    Il primo sistema, detto psicologico, comprende i resoconti verbali relativi all'esperienza soggettiva, come ad esempio: "ho provato una intensa sensazione di rabbia quando ......".
    Il secondo sistema, denominato comportamentale, riguarda invece le manifestazioni motorie dell'emozione, come ad esempio il comportamento di evitamento, di avvicinamento, di attacco e la fuga ecc., e le modificazioni dell'atteggiamento posturale e dell'espressione facciale.
    Il terzo sistema infine, vi è il livello fisiologico, prevalentemente rappresentato delle modificazioni fisiche: ad esempio negli effettori innervati dal sistema nervoso autonomo, quindi alterazioni della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, dell'irrorazione vascolare facciale (l'arrossire), l'aumento della sudorazione delle mani, o le modificazioni del ritmo respiratorio. Tutte queste variazioni sono connesse con, e anche indotte da, modificazioni di tipo endocrino, per esempio del sistema ipofisi-corticosurrenale (ACTH e cortisolo) o della midollare del surrene (adrenalina e noradrenalina).
    Questi tre sistemi interagiscono tra loro pur essendo parzialmente indipendenti. L'emozione, specialmente se intensa, può provocare alterazioni somatiche diffuse: il sistema nervoso centrale influenza le reazioni mimiche (l'espressione del viso), la tensione muscolare; il sistema vegetativo e le ghiandole endocrine, la secrezione di adrenalina, l' accelerazione del ritmo cardiaco e altre risposte.
    Comprende la consapevolezza di sé, che ci porta a dare un nome e un senso alle nostre emozioni negative, aiutandoci a comprender le circostanze e le cause che le scatenano; più in generale essa permette una autovalutazione obiettiva delle proprie capacità e dei propri limiti, così da riuscire a proporsi mete realistiche, scegliendo poi le risorse personali più adeguate per raggiungerle. Da quanto detto si comprende come possiamo parlare di intelligenza emotiva personale.
    Anche l'autocontrollo fa parte delle competenze personali. Esso implica la capacità di dominare le proprie emozioni, il che non vuol dire negarle o soffocarle, bensì esprimerle in forme socialmente accettabili. L'incapacità di gestire le proprie emozioni, può portare infatti ad agire in maniera inopportuna, e magari a forme di esagerata aggressività nei confronti degli altri, offrendo di sé un'immagine ben poco lusinghiera. Chi è padrone di sé, riesce di solito a comportarsi in maniera appropriata alla situazione, tenendo conto delle regole del vivere sociale, riconoscendo le proprie responsabilità e i propri errori, rispettando gli impegni presi e portando a compimento i compiti assegnatigli.
    Tra le competenze personali può essere inoltre collocata la capacità di alimentare la propria motivazione, mantenendola anche di fronte alle difficoltà o quando le cose non vanno come avevamo previsto o speravamo.
    La capacità di motivarsi è formata da una giusta dose di ottimismo e dallo spirito di iniziativa, attitudini che spingono a perseguire i propri obiettivi, reagendo attivamente agli insuccessi e alle frustrazioni.
    Una delle componenti più importanti di questo aspetto dell'intelligenza è costituita dall'empatia, ossia dalla capacità di riconoscere le emozioni e i sentimenti negli altri, ponendoci idealmente nei loro panni e riuscendo a comprendere i rispettivi punti di vista, gli interessi e le difficoltà interiori. Essere empatici significa percepire il mondo interiore dell'altro come se fosse il nostro, mantenendo tuttavia la consapevolezza della sua alterità rispetto ai nostri punti di vista.
    Secondo Goleman, l'intelligenza emotiva si può sviluppare attraverso un adeguato allenamento, diretto soprattutto a cogliere i sentimenti e le emozioni, nostri e altrui, indirizzandoli in senso costruttivo. Se, infatti, l'intelligenza legata al QI tende a stabilizzarsi intorno ai 16 anni (per incominciare lentamente a declinare negli anni della maturità), l'intelligenza emotiva può essere migliorata nel corso di tutta la vita.

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