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LA  MEDICINA  PER  L'UOMO:
ACCANIMENTO  TERAPEUTICO ?

Prof. Umberto ACCETTELLA

18 ottobre 2002

La legge obbedirà alla propria natura e non alla volontà del legislatore,
ed essa darà inevitabilmente i frutti che vi abbiamo seminato.

G. K. Chesterton

Nel discorso pronunciato in occasione della giornata commemorativa del quinto anniversario dell'enciclica Evangelium vitae (14 febbraio 2000), Giovanni Paolo II ha esortato una volta ancora a vincere quella "mentalità rinunciataria" che porta oggi a considerare ineluttabili, quasi socialmente necessarie, le leggi che attentano al diritto alla vita. Si situa in questo appello la nostra conferenza di stasera. Stare vicino alle persone gravemente ammalate significa anche aiutarle a vivere questa loro fase dell'esistenza con dignità.
L'accanimento terapeutico non va confuso con l'eutanasia. Di fronte allo stato patologico del paziente, il medico è chiamato con le sue conoscenze di ordine scientifico acquisito e delle sue capacità umane di giungere a comprenderne non solo le cause debilitanti, partendo da valide ipotesi e proseguendo con un metodo del tipo induttivo o deduttivo, ma anche farsi un'idea dello stato d'animo del soggetto a cui sta rivolgendo la sua attenzione. Questi infatti è una unità dove i confini tra psiche, anima e corpo non è sempre possibile cogliere.
Ne consegue che, oltre ad essere ben preparato, il medico deve possedere un'umanità non indifferente. Infatti, il medico sarà tanto più in grado di curare i suoi pazienti quanto più costruirà un rapporto umano con loro di stima e di fiducia. Va tenuto presente che il rapporto "medico – paziente" si basa sull'empatia, o meglio, sulla capacità del medico di calarsi nello stato d'animo del paziente e di dimostrargli vicinanza sul piano prettamente "umano". Le cure migliori possono essere prestate unicamente nel rispetto dei principi di beneficialità, autonomia, giustizia.
Occorre, dunque, ricordare che il malato è, prima di ogni altra cosa, un uomo, con la propria dignità. Quindi, egli ha diritto di essere informato nel modo più adeguato riguardo tutte le possibilità di intervento sulla sua malattia. Così, egli potrà decidere di dare o meno il suo consenso alle soluzioni proposte dall'équipe medica.
La professione medica ha come primo obiettivo il ripristino della salute del malato: "beneficialità" significa, infatti, giovare al paziente. Nello svolgimento della sua attività, un medico deve sempre chiedersi se quello che si propone di fare è effettivamente la cosa migliore per il paziente.
Il medico potrà "giustificare" ogni sua decisione ed ogni suo comportamento soltanto se ha posto alla base della sua professione determinati principi e determinati valori. Vari aspetti problematici caratterizzano l'affascinante attività medica e proprio questi esortano il medico a costruirsi dei saldi valori morali cui fare appello tutte le volte che egli si troverà a prendere decisioni sulla sua condotta.
Non si vuol dire che la preparazione scientifica e la professionalità non debbano avere la massima importanza (ci mancherebbe, visto che si ha a che fare con la salute della gente), ma che esse sono solo il mezzo per raggiungere un fine "più alto", che non è la semplice gratificazione personale, ma la tutela della vita e della salute di esseri umani.
È necessario un approccio che tenga unito il "paradigma etico-clinico" il quale porta a "prendersi cura della vita e della salute nel rispetto della dignità del paziente".
Come abbiamo già accennato, il punto di partenza deve essere sempre la valutazione corretta dei dati clinici, un approccio effettivamente corretto col paziente deve comportare sempre una valutazione di questi nella sua unicità e globalità, ovvero una considerazione della persona-malato, con il suo vissuto, le sue aspettative, i suoi timori, speranze ecc.
Troppo spesso in nome di una ben non precisata "scienza medica" si ha la pretesa di trascurare lo specifico umano, finendo con l'identificare il paziente con la sua patologia operando una divisione dove vi è unità: "si cura la malattia e non il malato". Non si pretende "l'identificazione del medico con il malato" ma certamente, "la comprensione" e un certo coinvolgimento che, certo è impegnativo a livello personale, ma credo sia indispensabile se non vogliamo mandare al malato un segnale negativo di conferma.
In una parola il paziente, con la sua personalità più o meno emotiva, deve essere al centro delle preoccupazioni del medico. Questa centralità della persona-malato, deve spingere a confrontare volta per volta i principi generali con la particolare esperienza del caso in questione. Non esiste una persona uguale ad un'altra e, perciò, non esisterà un paziente uguale all'altro (anche se la patologia è la stessa). Ecco perché bisogna sempre porsi la domanda: "qual è il trattamento terapeutico più appropriato nel caso in questione?".
Si ritorna, quindi, alla necessità della valutazione olistica del paziente (o meglio della persona) ed alle problematiche insite nel rapporto medico-paziente stesso. Particolare attenzione andrà posta sull'informazione da dare al paziente circa le sue condizioni, la prognosi ecc.: è questo forse il punto centrale del discorso, cioè la capacità del medico di "coinvolgere" il paziente, di stabilire con esso un rapporto di fiducia che non sconfini nel "paternalismo", ma, al tempo stesso, sia rispettoso della sua autonomia. Da qui la necessità di un'informazione che sia il più chiara e semplice possibile, tale da permettere una "compartecipazione" del malato e la realizzazione di una vera collaborazione attiva, ovvero, l'accettazione e l'osservanza delle prescrizioni mediche da parte del malato: ancora una volta ritorna, quindi, la necessità di una valutazione globale del vissuto del paziente, importante per il buon fine di "un atteggiamento di complicità tra medico e paziente".
Se tutto questo ha un senso, allora comporta una sorta di inversione nel rapporto tra medico e paziente, nel senso che, nella ricerca di questa "alleanza terapeutica", il medico non dovrà temere di "mettersi al livello del paziente", ma cercare di stabilire una simmetria finalizzata al buon esito della specifica terapia.
È bene tener presente che nel rapporto "medico-paziente" si evidenzia una "asimmetria valoriale", perché se da una parte il medico mette in gioco la sua professionalità e la sua competenza, il paziente pone sul piatto della bilancia la sua salute e la sua vita, il che gli fa assumere, in un certo senso, un'importanza predominante nel rapporto.
In questo ambito rientra lo spinoso argomento del "consenso informato" da parte del paziente ad un determinato trattamento e in particolare a qualche intervento chirurgico. Non si può non prendere atto che, molto spesso, nella realtà clinica, l'informazione che viene data è piuttosto approssimativa e sbrigativa tendente solo a parare conseguenze legali: in realtà bisogna prendere coscienza come dietro alla "firma sul pezzo di carta", ci sia tutto il complesso discorso etico cui ho già fatto cenno e, come questo, dovrebbe essere solo l'atto finale e consapevole di un percorso fatto insieme, dal paziente e dall'equipe sanitaria stessa.
Bisogna infatti prendere atto che il lavoro in equipe deve portare tutte le componenti a partecipare all'alleanza terapeutica, al fine di raggiungere il bene del paziente: ciò implica il dialogo come elemento fondamentale; nessuno può avere la pretesa di possedere la "verità", soprattutto in campo medico, e ciascuno deve essere pronto ad accettare il confronto ed a rispettare le diverse sensibilità professionali ed umane. Solo così è possibile, infatti, valutare tutti gli aspetti, clinici ed etici, che un caso comporta.
Bisogna inevitabilmente, nella pratica clinica, affrontare il tema delicato dell'eutanasia oltre dell'accanimento terapeutico. Il confronto sicuramente fa emergere i diversi e interessanti spunti di riflessione; ognuno, infatti, partendo da angolazioni differenti arriva a delle conclusioni differenti, anche opposte, con la consapevolezza, però, di come la morte sia un elemento con cui il medico deve continuamente confrontarsi: egli non deve, anzi, purtroppo non può, solo curare, ma spesso si trova davanti a situazioni molto complesse e delicate nelle quali ci si può limitare solo ad accompagnare la persona verso una morte che sia il più possibile serena e dignitosa, eventualmente intervenendo con cure palliative, ma sempre nel rispetto della volontà del paziente e senza sconfinare nell'accanimento terapeutico, o nel venir meno al giuramento di Ippocrate.
È questo un argomento molto complesso, che richiede una valutazione molto più profonda e articolata, qui basta averne fatto cenno.
Non va sottovalutato che alle responsabilità dei medici e dei sanitari in genere vi sono anche quelle dei famigliari e amici. Inoltre, carenze strutturali oggettive, mancanza di letti, lentezze burocratiche, scarichi di responsabilità ecc., per cui, alla fine, anche assicurare l'efficienza diventa, in un certo senso, una questione etica.
La cosa fondamentale, tuttavia è il rapporto che si istaura con il malato; si tratta di imparare ad osservarli, durante la visita, per "comprendere" le loro aspettative, i loro timori ed interpretare le loro espressioni mentre viene a loro spiegata la diagnosi, terapie ecc. In una parola, si tratta di focalizzare l'attenzione sul paziente e non solo sulle "disquisizioni scientifiche" (spesso incomprensibili anche tra i diversi medici).
Si tratta di rendersi conto di come, spesso, un cenno, un saluto, un sorriso, significhi molto per una persona che soffre (quanto meno per il fatto di trovarsi a letto in ospedale), e quindi, spendere un po' di tempo con loro a parlare anche della loro vita ecc., può essere un sollievo, un modo per non far sentire il paziente troppo estraneo ed "escluso".
Ecco quanto ha scritto un giovane che si preparava all'arte medica: "È per questo che non voglio menzionare nessun caso in particolare, perché mi sembrerebbe di sminuire la sofferenza delle altre persone che in questi mesi ci hanno accolto con simpatia, pur nella diversità dei caratteri, considerandoci, forse, più come "nipotini", amici ecc., che come studenti di Medicina. Ora che siamo giunti alla fine di questa esperienza, mi rendo conto di avere intuito, non dico imparato, che non si deve dare per scontato ciò che sembrerebbe ovvio a prima vista, e cioè che il fine del medico deve essere il bene del paziente-persona. Una decisione buona per il malato può venire solo da un'attenta e scrupolosa valutazione clinica, confortata da quella analisi etica necessaria per individuare i percorsi terapeutici più utili al paziente stesso considerato nella sua unicità e totalità: il "prendersi cura di..." è un concetto molto ampio e generale che implica non solo la salute fisica, ma un significato più ampio di "bene".
Chiudo con la considerazione che l'analisi etica di un caso clinico non consiste nel fare inutili e a volte sterili discussioni filosofiche, ma nell'individuare soluzioni che in quel momento risultano essere le più adeguate per il bene del malato. Possiamo affermare che una buona decisione clinica è di per se stessa etica.

Il Prof. Antonino Cavallaro, ha animato il dibattito con domande che hanno portato i partecipanti ha riflettere sulla necessità di non demandare ad altri lo stare accanto ai propri famigliari ammalati; il prendersi cura amorevole è una medicina insostituibile.

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