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3) L'IMPEGNO POLITICO DEI CATTOLICI
IN ITALIA DAL NON EXPEDIT
AI GIORNI NOSTRI.
LA PRESENZA E IL RUOLO DEI CATTOLICI
NELL'ITALIA REPUBBLICANA

Dott. Benedetto COCCIA

13 dicembre 2002
Il 1848 rappresentò un anno di grandi rivolgimenti. In Italia scoppiarono numerose rivolte antiborboniche e antiaustriache. Tutti richiedevano una Costituzione, che sancisse le libertà fondamentali e consentisse al popolo di essere rappresentato. Nel gennaio del 1848 il Re di Napoli, Ferdinando di Borbone, decise autonomamente di concedere la Carta Costituzionale. Questo evento portò in febbraio che sia il granduca di Toscana che il Pontefice concedettero a loro volta la Costituzione, e nel marzo dello stesso anno anche Carlo Alberto di Savoia, Re di Sardegna, concesse lo Statuto Albertino.
Nello stesso anno si tennero le prime elezioni del Parlamento sabaudo, che prevedeva che una parte dell'organo legislativo, la Camera dei Deputati, fosse eletta direttamente dal popolo; allora poté votare meno del 2% della popolazione residente nel Regno sardo.
Dopo l'unità d'Italia (1861) lo Stato necessitava di una Carta Fondamentale, per sancire la liberal - democrazia raggiunta. Si contrapposero due tendenze:

Quella mazziniana: che voleva una Costituzione diversa dallo Statuto, votata direttamente dal popolo e più avanzata.
Quella cavouriana: che voleva estendere a tutta l'Italia lo Statuto.
Prevalse la seconda (cosiddetta piemontizzazione dell'Italia).
Questo portò a numerosi disagi, soprattutto nel sud d'Italia, dove non si era in grado di sostenere una tale amministrazione.
Le riforme liberali: fino al 1876 le elezioni politiche si basavano su collegi uninominali: il territorio nazionale veniva diviso in un numero di collegi elettorali pari al numero di candidati da eleggere, in ogni collegio si poteva eleggere un solo rappresentante. Se in un collegio nessun candidato avesse raggiunto la maggioranza assoluta si andava al ballottaggio fra candidati maggiormente votati. Si favorivano perciò i candidati conosciuti. La base elettorale era il 2% della popolazione.
Nel 1882 una nuova legge elettorale estese il diritto di voto (suffragio allargato) eliminando i limiti di censo, ma non quelli di analfabetismo. Al posto del sistema uninominale s'introdusse un complicato meccanismo fondato su uno scrutinio fra liste concorrenti. Tutto questo venne dalla sinistra e dai ceti meno abbienti.
I decenni successivi videro un'instabilità a livello governativo (crisi della politica liberale). Tipico di questa fase è il trasformismo, tendenza dei governi a ricercare l'appoggio di forze politiche eterogenee. Le elezioni erano sempre più "pilotate", corrotte. Per evitare questo si pensò di ritornare ad una forma di governo monarchica e costituzionale (proposta di Sonino), ma questo tentativo del Governo Pellaux non passò al Parlamento. Si arrivò così alle elezioni anticipate.
L'età giolittiana: fu un cambiamento radicale a confronto del periodo precedente. Le lotte proletarie che prima erano considerate come un affronto allo Stato ora iniziavano ad essere comprese. Giovanni Giolitti realizzò diverse riforme. Numerosi enti pubblici vennero creati tra, tra cui l'INA (Istituto Nazionale Assicurazioni) i cui proventi finanzieranno la cassa per l'invalidità e la vecchiaia dei lavoratori. Dando grande attenzione all'efficienza della burocrazia e della Pubblica Amministrazione, Giolitti favorì l'inserimento di esperti nei diversi settori sia al Parlamento che al Governo.
Intanto il Partito Socialistico e le forze ispirate al marxismo crebbero d'importanza. Giolitti seguì una politica di tolleranza, anche verso le lotte operaie, non adottando nei loro riguardi provvedimenti repressivi. Giolitti riteneva, infatti, impossibile fare a meno del loro consenso per mantenere la liberal - democrazia. Questa mentalità del governo aumentò il trasformismo. Giolitti costituì 3 ministeri dal 1903 al 1914.
Nel 1913 le elezioni avvennero con suffragio universale maschile, purché avessero prestato servizio militare (introduzione di simboli elettorali per gli analfabeti). In quest'occasione Giolitti stipulò un accordo fra liberali e cattolici, il famoso Patto Gentiloni, dove i cattolici si impegnavano a votare i laici dove mancassero candidati cattolici o dove fosse presente il rischio di una vincita della sinistra. I liberali a loro volta s' impegnavano a tutelare la scuola privata e ad opporsi ad eventuali provvedimenti particolarmente sfavorevoli per la Chiesa (con tale patto venne a meno la storica separazione fra Stato e Chiesa). Comunque sia nelle elezioni del 1913 vi fu un forte progresso dei rappresentanti della sinistra. Giolitti nel marzo del 1914 si dimise dal Governo, qualche mese più tardi sarebbe iniziata la prima Guerra Mondiale.

Contributo di Umberto Gentiloni
Nei mesi che abbiamo alle spalle non sono mancati dibattiti, prese di posizione e polemiche con riferimenti espliciti alla storia e alle sue possibili interpretazioni. Si è passati dai giudizi sulla stagione della Resistenza e della fondazione della repubblica ai temi dell'identità nazionale e delle sue debolezze vere e presunte. Un crescendo continuo che non ha risparmiato l'impostazione e la stessa libertà di scelta dei libri di testo, il rapporto con le due superpotenze nei decenni della guerra fredda, il significato stesso del Risorgimento e del processo di unificazione italiana, il ruolo e l'eredità delle diverse culture politiche dell'Italia repubblicana.
Il confronto fa bene alla storia perché sottopone ricerche e interpretazioni al vaglio del pluralismo dell'informazione e del sapere, tuttavia troppo spesso non si è trattato di una dialettica tra posizioni o approdi storiografici. La polemica politica ha orientato (non ci sarebbe di per sé nulla di male) e piegato giudizi e riferimenti definendo un campo di indagine e una metodologia che poco hanno a che fare con la riflessione storica o con le differenziazioni storiografiche. Non mi sembra si possa parlare di "uso pubblico della storia", che è questione seria e legata allo sforzo di comprensione che anima la ricerca di chi si occupa di storia. È prevalso l'obiettivo di sovrapporre senza attenzioni metodologiche o impostazioni verificabili il passato e il presente, un "presente come antistoria" che ha spesso penalizzato gli spazi di una discussione feconda e non conformista.
Il limite non è quello del rapporto tra storia e attualità, o se vogliamo tra storia e politica, inevitabile elemento costitutivo della conoscenza storica e della sua evoluzione; ma quello della artificiosa confusione di ruoli (tra giornalisti, politici e storici) e soprattutto di metodologie e linguaggi. Tutto è sembrato appiattirsi nella dimensione della polemica spicciola del giorno per giorno senza che la fatica dell'approfondimento, della ricostruzione di realtà e fenomeni complessi potesse avere un qualche spazio credibile. Non si può né si deve generalizzare, ma l'impressione prevalente delle "polemiche a sfondo storico" è stata quella della ricerca (spesso celata sotto dichiarate intenzioni più serie) di una conferma immediata, di un vantaggio politico da poter "spendere" nel grande circo della comunicazione; giudicare e talvolta provocare senza porsi il problema della comprensione o della innovazione (la tanto controversa chimera della "revisione") di tendenze o giudizi storiografici.
Prendiamo l'ultima - in ordine di tempo - disputa sul massacro della divisione Acqui nell'isola di Cefalonia. Non è questa la sede per ricostruire il merito dell'accaduto e del dibattito presente o passato, ma ciò che non può non colpire è la contraddizione tra la critica più volte emersa in questi anni verso le istituzioni poco attente al necessario rafforzamento di un quadro di identità nazionale condiviso (colpevoli di non aver costruito un universo comune di appartenenza) e la reazione al viaggio del presidente della Repubblica che avrebbe occupato con la sua iniziativa prerogative e compiti degli storici, sovrapponendo il suo ruolo istituzionale di più alta carica dello stato con le funzioni della ricerca o della memoria dei protagonisti. È sembrato un corto circuito pericoloso che ha prodotto il risultato di chiudere gli spazi di una riflessione seria, non incidentale per far prevalere posizioni cristallizzate e contrapposte. Inizialmente non era stato così, penso al commento di Claudio Pavone e ai temi di un possibile dibattito da aprire, di un "revisionismo" serio capace di guardare al futuro: è possibile retrodatare l'inizio della stagione della Resistenza affiancando alle vicende romane di Porta San Paolo l'eccidio di Cefalonia, e ancora quali riflessioni sulla partecipazione dell'esercito italiano, sul ruolo della monarchia sabauda e sui silenzi della storiografia ufficiale militare su episodi così significativi? Un dibattito innovativo capace di tenere insieme gli effetti delle iniziative istituzionali con le ripercussioni dei romanzi sulla vita a Cefalonia, riaprendo temi di fondo sulle fonti di documentazione o sul rapporto tra storia e memoria, non ha avuto la forza (fino ad oggi) o la capacità di farsi largo.
Se Cefalonia rappresenta l'esempio più vicino e forse più emblematico delle difficoltà e dei limiti del dibattito sulla storia e sui suoi usi, altri aspetti lo hanno in vario modo attraversato. A più riprese si è posto l'accento sul ruolo e sulla presenza del movimento cattolico nei decenni dell'Italia unita. Nell'estate 2000 il dibattito è diventato acceso quando sono state proposte letture al limite del paradosso sul Risorgimento di impronta liberale anticattolico e anticlericale (meeting a Rimini di Comunione e liberazione e mostra sui limiti e sulle responsabilità del processo di unificazione ) o quando le beatificazioni controverse di Giovanni Paolo II (mi riferisco soprattutto a quella di Pio IX) hanno riacceso polemiche che sembravano superate da tempo. Il XX settembre si è quasi improvvisamente rianimato di quella divisione clericali-anticlericali che sembrava essere stata sconfitta con il concorso di tutti, da una parte e dall'altra.
Ma dietro alle polemiche pretestuose si cela una questione ben più interessante e attuale che investe il tessuto della convivenza civile e le stesse debolezze vere o presunte dell'identità nazionale italiana. In occasione della rievocazione fiorentina del Gabinetto Vieusseux, il confronto indiretto tra Pietro Scoppola e Indro Montanelli ha avuto come oggetto il ruolo e la presenza della chiesa e dei cattolici nella vicenda storica italiana, il rapporto fra coscienza religiosa e coscienza nazionale. Con chiarezza sono emerse posizioni comuni e punti di contrasto. Montanelli ha insistito sull'universalismo cattolico come fattore di freno e di offuscamento della nostra identità, "la Chiesa impedì all'Italia di diventare una Nazione col suo Stato laico e agli italiani di diventare dei cittadini muniti di una coscienza civile": un'analisi che Scoppola condivide - almeno nelle sue linee di fondo - pur contrastandone l'utilizzo, chiedendo di andare oltre la dimensione descrittiva perché un giudizio del genere "non è che non sia vero [...] ma non basta per comprendere il passato". Il conflitto tra stato e chiesa, tra coscienza religiosa e coscienza civile ha attraversato, com'è noto, l'intera parabola postunitaria. Ma è riduttivo limitarsi a constatarlo, senza comprenderne le ragioni oggettive. Ed è proprio la comprensione di dinamiche e interpretazioni sul ruolo dei cattolici in Italia a rendere la materia irriducibile a una polemica fine a se stessa o peggio ispirata da finalità di altro tipo, magari pretestuose. Due mi sembrano gli aspetti "preliminari" che investono e condizionano lo sforzo di un'analisi seria sul ruolo e sulla funzione del movimento cattolico.
Il primo riguarda l'uso delle terminologie di riferimento. Il rapporto con la sfera religiosa rende l'oggetto dell'indagine storiografica meno definibile in senso univoco, quasi "sfuggente": la chiesa, i cattolici, i cristiani, il movimento cattolico, tutti termini che spesso nella polemica spicciola vengono utilizzati in modo interscambiabile senza la giusta attenzione al contesto e alla prospettiva storica (tralascio volutamente i limiti e le incongruenze delle metodologie prevalenti). L'uso impreciso dei termini allontana lo spazio di un confronto serio e rigoroso producendo confusioni e sovrapposizioni tra la storia e la storiografia, tra la politica e la religione sfumando i contorni dell'oggetto su cui si vorrebbe intervenire. Quando si fa riferimento ad una presenza religiosa - per esempio - non la si può identificare con quella cattolica senza tener conto del ruolo delle chiese riformate o della comunità ebraica. E anche il concetto di identità o di coscienza nazionale non è neutro o statico: il tempo modifica e definisce i concetti di patria e di nazione che non hanno senso al di fuori del contesto che li delimita.
Il secondo aspetto investe il tema delle difficili periodizzazioni che caratterizzano lo studio del movimento cattolico. Da un lato è impensabile affrontare le tematiche nuove dell'identità e del ruolo dei cattolici nei processi di nazionalizzazione senza un'ottica di lungo periodo, tenendo quindi conto delle tematiche ottocentesche e dei percorsi differenziati dell'universo cattolico italiano; dall'altro i decenni della Repubblica pongono domande inedite e introducono fratture tali da avvicinare (non solo in senso temporale) i termini di un'analisi possibile . Il ruolo dei cattolici nella Resistenza, le tematiche legate al "vissuto" degli italiani come componente di una cittadinanza comune, la parabola e i paradossi della Democrazia cristiana, gli effetti e le dinamiche del Concilio Vaticano II sull'arcipelago cattolico e sulla società e la cultura di allora sono fattori che negli ultimi anni hanno caratterizzato l'attenzione storiografica con una produzione di studi (ancora agli inizi) di vario tipo spesso ignorati dal confronto degli ultimi mesi. Il tratto unificante è stato ed è tuttora la ricerca attorno al ruolo complesso che la coscienza religiosa ha svolto nella storia della Repubblica. Può essere utile distinguere il piano della polemica da quello della riflessione scientifica soprattutto cominciando a orientarsi nella storiografia sul movimento cattolico e sul ruolo dei cattolici nella nostra storia. Non voglio sostenere che non ci sia contatto o non debba esserci interazione tra i due livelli (riflessione storica e dibattito sull'attualità), ma penso che la confusione metodologica e dei piani (tra passato e presente) non produca passi avanti e rischi di riproporre cliché storiografici che assomigliano più a delle caricature che a un dibattito serio e perfettibile; il rapporto tra storia e politica e tra passato e presente non può che essere assunto criticamente come punto di vista e come oggetto stesso dell'indagine, come parte costitutiva del lavoro dello storico.
Se si tralasciano gli aspetti più polemici o le prese di posizione più provocatorie sul ruolo dei cattolici nel processo di unificazione possiamo ricondurre gli studi più recenti attorno ad alcuni grandi temi o questioni (o se si vuole "piste di ricerca") che investono ruolo e funzione del movimento cattolico.

L'indagine sul risorgimento e sulle sue modalità di realizzazione ha da tempo superato gli approcci esclusivamente nazionali per interrogarsi sulla comparatistica continentale. Nel nostro caso lo studio e la ricerca sul risorgimento italiano ha senso se si inserisce nell'ottica dello sviluppo dei processi di nazionalizzazione e di costruzione delle nuove nazioni nella seconda metà del XIX secolo (Italia, Germania, Belgio, Romania, Ungheria solo per citare i casi più noti). Il contributo dei cattolici non si può leggere esaustivamente dentro l'opzione transigenti-intransigenti riproponendo un improbabile risorgimento anticattolico e quindi condannabile , ma va letto nel quadro delle forme che le diverse componenti politico-culturali dell'Ottocento italiano seppero dare ai percorsi di una lunga e controversa nazionalizzazione. Sin dalle classiche Interpretazioni del Risorgimento di Walter Maturi emergono - nelle pagine dedicate a Ettore Passerin d'Entrèves - i temi legati alla centralità degli aspetti religiosi e della indissolubile compresenza degli stessi nelle dinamiche risorgimentali . Il percorso di Cavour e il peso del periodo del "risveglio ginevrino", l'influsso della cultura ginevrina degli anni '30 del XIX secolo sulla sua formazione (gli studi di Francesco Ruffini ripresi da Jemolo) rappresentano una premessa imprescindibile per impostare in modo serio e efficace il tema dei rapporti tra stato e chiesa nei primi anni del Regno d'Italia (penso alle pagine di Rosario Romeo ). Sono decenni di studi e interpretazioni che scompaiono, non vengono presi in considerazione (quasi che su ogni tema o argomento si dovesse ricominciare da zero) nell'incalzante ritmo della polemica fine a se stessa, nello spazio di pochi giorni.
Le nuove domande sul ruolo dei cattolici sono in parte il ribaltamento dell'approccio che ha caratterizzato le prime significative stagioni di studi del secondo dopoguerra. Per decenni si è indagato sul movimento cattolico come movimento degli "esclusi", cercando nella sfera dell'intransigenza quei nessi con il popolarismo prima e con il ruolo centrale della Democrazia cristiana nell'Italia repubblicana poi; il movimento intransigente diventava il tessuto organizzativo (esclusivo) della presenza cattolica nella società italiana. Oggi la riflessione più innovativa mette al centro le domande sull'identità e sulle appartenenze politico culturali. In questo contesto la diatriba transigenti-intransigenti è utile se aiuta a cogliere i limiti dell'intransigenza e del rifiuto della modernità e della democrazia; il freno che l'atteggiamento simboleggiato dal non expedit ha prodotto al formarsi di un'identità condivisa e di forme di rappresentanza politica (e anche di educazione alla democrazia) in grado di allargare la sfera della partecipazione . La stagione di risposta all'impostazione crociana contenuta soprattutto nella Storia d'Italia dal 1871 al 1915, che ridimensionava fortemente il ruolo dei cattolici , sembra conclusa e tornano di attualità e di grande interesse le conclusioni contenute nella lezione di Arturo Carlo Temolo, quando spiegava che il conflitto tra stato e chiesa era parte di una riflessione più generale sulle modalità di costruzione e di sviluppo del nostro paese . Su questa scia studi e interpretazioni hanno caratterizzato gli anni più recenti, anche con ipotesi diverse, basti pensare ai lavori di Guido Verucci, Andrea Riccardi, Francesco Traniello e Guido Formigoni.
Il tema più difficile e allo stesso tempo più interessante: il rapporto della chiesa con la modernità o se si vuole i percorsi e i processi di secolarizzazione. Sono riflessioni contenute negli studi ormai decennali, di Verucci, Scoppola, Miccoli, Traniello (solo per citare i principali) che hanno in modi diversi affrontato le questioni dello sviluppo di un rapporto inedito tra chiesa e democrazia, tra società di massa e fenomeno religioso . Sono piste di ricerca che investono l'immagine e la sostanza stessa delle analisi sul XX secolo; spesso tralasciate anche dalle produzioni storiografiche più recenti, e non soltanto quelle italiane. Quale il rapporto tra chiesa e democrazia? Tra chiese e potere politico? Come si definisce il percorso cattolico pre e post conciliare rispetto ai temi dell'identità nazionale e della funzione universale del messaggio religioso? Quale il ruolo attuale della chiesa di fronte alla crisi delle certezze e dei riferimenti del passato? La chiesa è l'unico fattore che unifica il paese e riempie vuoti altrui, uscendo rafforzata dalla crisi di questi anni (Bodei) ? O al contrario la chiesa ha svolto e svolge un ruolo negativo perché si oppone alla definizione progressiva di una statualità nazionale, sin dai tempi della controriforma (Schiavone, Galli della Loggia)? Tutti interrogativi che accompagnano, e presumibilmente accompagneranno a lungo, la riflessione storiografica.

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