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IL BELLO È NEGLI OCCHI

Prof.ssa Luciana FINELLI

17 gennaio 2003
Poniamoci anzitutto la domanda di rito: cosa è "il bello"? Sarebbe troppo facile uscirsene con il detto corrente "non è bello quel che è bello, è bello quel che piace". Questo in realtà è un escamotage che chiede una vera risposta, mentre scarica il soggetto da qualsiasi responsabilità critica. A seguito di tutto quello che l'Arte ha già prodotto nei secoli passati, e anche nel periodo contemporaneo benché discusso, possiamo oggi dire, con buone probabilità di essere nel giusto, che "è bello quel che è bello": vale a dire che esistono in ogni tempo dei parametri di valutazione, ancorché mutevoli, che consentono di monitorare abbastanza rigorosamente la produzione artistica "valida", separandola da quella soggetta al gusto personale, spesso (perdonatemi) ineducate alla comprensione di un mondo interiore e fantastico che è il mondo degli artisti.
Vi sono eccezioni: per esempio, nella pittura, a tutti quasi indistintamente risulta apprezzabile fino all'entusiasmo la produzione del Rinascimento e del Quattrocento perché tutti vedono quello che è. Un viso è un viso, gli atteggiamenti sono colti nel momento in cui l'artista fissa i movimenti: San Sebastiano si offre sempre allo sguardo legato alla colonna o con le mani dietro alla schiena, con le frecce confitte nelle carni senza manifestazione di dolore. La Madonna, seduta, esibisce il Bambino ed è quasi sempre rappresentata come una bellissima fanciulla, seria e tranquilla, spesso con il manto azzurro e la veste rossa, ricamata o meno: ricordiamo i supremi momenti del Beato Angelico e del Botticelli, per citarne solo due fra i tanti.
Che direste se rivelassimo che anche questi dipinti sono "criptati", vale a dire che contengono significati percepibili solo dai conoscitori? Eppure è così: gli artisti del Rinascimento adoravano i rebus e i simboli e li disseminavano direttamente nella composizione in modo da renderla più segreta quanto più fosse evidente. Il dito che indica, le mani aperte, lo sfondo della natura negli interni con magari un brano di città all'orizzonte, il piede sinistro avanti al destro o viceversa, la collana di corallo del Bambino, l'ermellino, l'unicorno, il cardellino, un pomo nella mano, l'ornamento dei capelli muliebri con perle o con una cuffia, ecc. tutto ciò rappresenta per l'artista e per l'osservatore esigente tanti incentivi in più per esprimere e capire il linguaggio segreto delle forme e dei colori.
E allora come la mettiamo? Sono "belli" solo quei quadri oppure siamo noi che dobbiamo educarci a "leggere" la verità vera dei messaggi diversi? Anche il grande Michelangelo aveva i suoi segreti e si firmava cripticamente in vari modi, invisibili e incomprensibili ai più: solo la Madonna della Pietà in San Pietro porta il suo nome per intero, scolpito sulla fascia che attraversa il petto della statua, opera meravigliosa che egli eseguì a soli ventiquattro anni.
Occorre arrivare al XVIII secolo (1700) per avere tuttavia un quadro studiato e quasi scientifico del concetto di "bellezza". La declinazione più estesa del concetto di "bello" appartiene infatti al periodo del pre­romanticismo (fine settecento-primi ottocento) e viene accolta dal romanticismo pieno con enorme entusiasmo. Si propongono due termini distinti: il bello "sublime" e il bello "pittoresco", termini non esattamente contrapposti bensì sottilmente diversi. Protagonista di ambedue è, come nei secoli precedenti, la Natura: solo che per la poetica del Sublime essa dispiega all'uomo un ambiente duro e ostile e oppone l'individualità singola al mondo, generando sentimenti di solitudine, di tragicità dell'esistere, e facendo dell'uomo il prototipo dell"'eroe" sotto un aspetto squisitamente romantico. Sottolineiamo che stiamo parlando di sentimenti, cioè di percezioni dell'anima.
La poetica del Pittoresco, invece, nasce insieme alla diffusione del giardino paesistico inglese, quel giardino cioè che nega risolutamente le soluzioni del cosiddetto giardino "all'italiana", con i suoi viali dritti, le aiuole geometriche bordate di bosso, le statue classicheggianti in marmo bianco, grandi vasi di aranci e di limoni, i boschetti pettinati e le fontane monumentali centrate sulle prospettive. Il giardino paesistico inglese presenta anch'esso, lo abbiamo detto, come protagonista la Natura, ma questa è una natura piacevolmente ondulata in collinette verdi e dolci avvallamenti, disposti ad accogliere sentieri campestri e sorgenti zampillanti dalle pietre, che si risolvono in ruscelletti spontanei scorrenti fra le erbe, o in tranquilli laghetti.
Gli alberi (in genere grandi querce, alte betulle e imponenti conifere) sono raggruppati "a macchia" sulle alture o serrati gli uni accanto agli altri nelle pianure. È un'arte preziosa che si risolverà poi nell'urbanistica delle Città-Giardino, arte che non "rappresenta" ma "modifica" la Natura rendendola essenzialmente non ostile, una volta adattata ai sentimenti umani e alle opportunità della vita sociale, costituisce se stessa ad ambiente per la vita, divenendo vagamente "consolatoria".
Sembra una contraddizione ma non lo è: la poetica del Sublime, concordemente riconosciuta come pre-romantica, addita come supremi modelli, in pittura scultura e architettura, le forme classiche e costituisce uno dei fondamenti del Neo-classicismo. Gli artisti del periodo, rispondendo a una sensibilità nuova, assumono nei confronti dell'arte classica un atteggiamento romantico, vale a dire un atteggiamento sentimentale e morale che si fonda sui grandi valori dell'esistenza, il destino, la morte, traguardo terreno dell'uomo ed esaltazione della sua grandezza.
L'apparente contraddizione tra classico e romantico viene intuitivamente sciolta allorché si pensi ai capolavori della musica contemporanea al neoclassicismo: infatti, se Ludwig van Beethoven è notoriamente un classico, egli è anche il principe, e il più autorevole, dei romantici. Fra l'immensa sua produzione ricordiamo la Terza Sinfonia, l'Eroica, appassionata celebrazione di Napoleone Primo Console (1802), dedica poi rinnegata al momento dell'ascesa al trono dell'Imperatore (1804), solenne performance della concezione comune della figura dell'Eroe: vale a dire non il despota potente, ma il disinteressato alfiere del riscatto dell'uomo, corazzato dall'usbergo di virtù e sapienza.
Alla base della drammaticità dello scontro sta il conflitto tra la immobilità statica della tradizione classica e le geniale dinamicità dello spirito nuovo, configurato dall'ideale romantico, gravido di movimento e contrapposto a quello classico, eternamente rispecchiato dall'immagine della continuità di se stesso. Conflitto caratterizzato dal dualismo libertà/obbligo; caratteristica dell'ideale classico è. infatti la "regola" (o "cànone"); la problematica che ne deriva da questo conflitto e del tutto nuova e finalmente "moderna", in quanto contempla due concetti emergenti: quello di "progresso", generato dalla successione delle conquiste soprattutto scientifiche e tecnologiche, che suggellano l'orizzonte dell'uomo tramite la sua ingannevole emancipazione finale (oggi lo possiamo dire); e quello ad esso conseguente di libertà, il più peregrino dei vocaboli del Moderno ma certo il più coinvolgente, mitica parola che sancisce l'approdo a una condizione umanitaria totalizzante in cui i cronici mali del passato si sarebbero risolti in una auspicata umanità futura. Parola adottata da tutti gli spiriti svegli a partire dai primi decenni dell'Ottocento fino ad oggi, proviene anch'essa dal movimento romantico dei filantropi e degli umanitaristi che in vario modo, e ciascuno nel proprio campo, avevano precorso le esaltanti tappe del Moderno in fieri. Ricordo a questo proposito lo splendido sviluppo musicale e vocale del "Viva la Libertà" nel Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart.
L'ideale neoclassico/romantico non nasceva tuttavia dal nulla e non era del tutto nuovo: infatti esso proveniva da un grandioso precedente che scaturiva nientemeno che dall'antica Grecia e precisamente dall'età di Pericle (V secolo a.C.). In quell'età fortunata la filosofia greca coniava un termine adatto a definire il significato di quell'arte eternamente giovane, termine che non è una brutta parola come sembra, ma è comprensivo di due concetti abbinati e strettamente correlati: si chiama "kalokagathìa", che vuol dire "bellezza + bontà", e deriva da due aggettivi folgoranti, kalòs (bello) e agathòs (buono), cioè "ciò che è bello è anche buono"; quindi un significato di natura estetica (bello) unito a un altro di natura morale (buono). Questo precedente venne conosciuto a fondo dagli studiosi, soprattutto tedeschi, proprio in età romantica e fu applicato dagli artisti, principalmente dai pittori inglesi cosiddetti "pre-raffaelliti".
Poi venne temporaneamente abbandonato dalla coscienza collettiva. Fu rispolverato nel secondo dopoguerra, nel 1945, indovinate da chi? Sì, proprio dagli architetti italiani che si trovarono di fronte a un Paese distrutto, tutto da ricostruire. La parola d'ordine fu "date agli uomini una casa bella ed essi diventeranno più buoni". Ma era una "magnanima illusione": occorreva fornire dei buoni modelli validi per tutti e adatti a costruire in fretta, i mezzi erano pochi, i bisogni tanti e urgenti, la gente di provenienze diverse e con abitudini differenziate; inoltre le città avevano richiamato immigrati da tutte le campagne e i paesi; forse gli architetti, nel loro insieme giovani e pieni di generose intenzioni, erano impreparati a un compito così impegnativo. Il fatto è che i risultati degli anni '50 e '60 sono le periferie che noi vediamo in tutte le nostre città, dove l'avere inserito negli appartamenti un bagno confortevole produsse l'adozione della vasca da bagno a contenitore di piantagioni di basilico. Le diverse provenienze sociali venivano così in conflitto nell'àmbito più delicato dell'esistenza umana: la casa.
Ma il "bello" che fine ha fatto? Forse, tirato da tutte le parti, ha cercato rifugio nell'organo che più lo rappresenta e cioè nell'occhio dell'uomo. Si dice comunemente che "l'occhio è lo specchio dell'anima": ma l'anima dove si trova? Quando ero piccola credevo che l'anima fosse un'entità misteriosa ma palpabile, a forma di fagiolo, situata press'a poco immediatamente al di sotto del cuore. Torniamo all'occhio e pensiamo un attimo al fenomeno della percezione visiva: in sezione l'occhio è un globo simile a una camera oscura (è il principio della fotografia); da una parte c'è la pupilla, forellino che si dilata e si restringe secondo la luce, munito di una "lente" retrostante, il cristallino; dall'altra parte, sulla parete ricurva verso l'interno, c'è la rètina, uno schermo circolare agganciato tramite la "coroide" al fondo dell'occhio; dal suo retro parte il nervo ottico che fornisce le informazioni al cervello. I raggi luminosi, passando per la pupilla e per il cristallino, si incrociano sul "fuoco" della lente all'interno della camera oscura: le immagini si formano, capovolte, sulla rètina la quale, tramite il nervo ottico le trasmette, raddrizzate, al cervello, obbedendo alla"posizione eretta".
A questo proposito, avete fatto caso che i sogni, sia quelli ad occhi chiusi che quelli ad occhi aperti, procedono per immagini? E spesso anche il pensiero fa la stessa cosa, specie quando proponiamo a noi stessi un'azione da compiere che ci sta a cuore? Ecco: il cuore. Cuore e mente sono strettamente legati e vanno di pari passo, proiettando l'apprezzamento del bello sugli affetti, in modo da amare la bellezza. Sì, anche la dibattuta Arte Moderna, con i suoi scarti e la sua apparente enigmaticità, celebra lo stesso mito e tende al riscatto dell'umanità, forte di quei principi che abbiamo imparato dall'Ottocento ed esposti all'inizio di questa conversazione. Ma il nocciolo è molto più antico ed è situato nel fondo della Storia. Dice il Salmista: "Io sono fatto in modo meraviglioso. Tu sapevi tutto di me fin da quando io stavo nel ventre di mia madre". Ed anche questa è bellezza incomparabile. Grazie.

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