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  • Conferenza del 31 gennaio 2003

    IL SANGUE E LA VITA

    Prof. Giuseppe LEONE

    31 gennaio 2003
    Vi ringrazio di avermi invitato a partecipare a questi vostri interessanti cicli di conferenze denominate, se non sbaglio "Conferenze del venerdì".
    Mi avvalgo in buona parte della prolusione preparata per l'Università Cattolica e mi sento particolarmente emozionato poichè mi corre immediatamente il pensiero a quando, da matricola con i miei genitori, nel 1961 assistetti alla prima prolusione tenuta dal Prof. Lambertmi, insigne anatomico, che mi introduceva allo studio della Medicina attraverso le indimenticabili lezioni di Anatomia Umana.
    Sono venuto volentieri in questa parrocchia di S. Mattia, e senza imbarazzo mi sembra opportuno ringraziare l'Istituzione, che ha permesso lo sviluppo della mia personalità ed il raggiungimento delle mie aspirazioni, in armonia e nel rispetto di quelle degli altri, ed in particolare dei colleghi dei primi anni, durante i quali, si è formata una Comunità di spirito, che rimane e spero si trasmetta alle generazioni più giovani. Questa Comunità di spirito va al di la della comunanza scientifica e culturale, in quanto affonda le sue radici nella scelta che facemmo tanti anni fa, andando nella Università Cattolica, che sentivamo e sentiamo unica nei suoi fini istituzionali.
    Quando iniziai i miei studi di Medicina, l'Ematologia non era una disciplina autonoma e i cultori della Ematologia erano tuttavia presenti sia in ambito biologico che in ambito clinico.
    D'altra parte il sangue, con il suo senso magico, si ritrova citato, nella sua individualità, ai primordi dell'uomo, e dall'antichità ai nostri giorni è sinonimo di vita. L'uomo scopre l'importanza del sangue fin dai suoi esordi ed il graffito del bisonte ferito a morte nelle grotte di Niaux, già 3000 anni prima di Cristo, identifica il sangue, che fuoriesce, con la vita che lascia la bestia morente.
    Bisogna però arrivare ad Harwey, nel 1628, per rendersi conto che il sangue circola nelle arterie e nelle vene. Nel 1661 Malpighi scopre i capillari e identifica nel sangue i globuli rossi.
    L'ignoranza del ruolo e della composizione del sangue non trattiene i medici del '600 e '700 dal­l'intervenire sul sangue; si salassa a piene mani e si trasfonde talvolta con risultati spesso fatali, che inducono il governo di Francia a proibire le trasfusioni. L'Ematologia moderna incomincia nel secolo scorso con la individuazione delle grandi patologie proliferative, quali il linfogranulo­ma di Hodgkin e la leucemia.
    Alla fine del secolo XIX si scopre che le cellule del sangue origina­no dal midollo osseo, e grazie ad Ehrlich, che introduce nel laboratorio di citologia i coloranti della industria tessile, diviene possibile, al microsco­pio, il fine studio morfologico del sangue periferico e midollare, che per­metterà di individuare le attuali linee cellulari. Solo nel XX secolo nasce e si sviluppa la clinica delle malattie del sangue, che si fonda sulla stretta integrazione tra esame clinico, anamnesi ed esame obiettivo, ed esami di laboratorio rivolti allo studio del sangue, del midollo osseo, dei linfonodi e della milza, esami eseguiti dal clinico stesso.
    All'inizio del secolo, e fino al 1940, domina la scena l'ematologia dei grandi morfologi; è un periodo in cui l'ematologo è prevalentemente un patologo clinico, che osserva e raramente interviene con mezzi trasfu­sionali. Landsteiner infatti nel 1900 ha scoperto i gruppi sanguigni ABO, gruppi che Levine completerà nel 1939 con la scoperta del sistema Rh. L'ematologia italiana che, permettetemelo di ricordarlo, ha sempre goduto di meritato grande prestigio nella comunità scientifica internazio­nale, partecipa a questo periodo anatomo-clinico, di osservazione e clas­sificazione, con due figure preminenti, che ben individuano le sorgenti della Ematologia, Giulio Bizzozzero, biologo, patologo generale a Pavia e a Torino alla fine del secolo scorso, e Adolfo Ferrata patologo clinico e clinico medico, a Pavia tra il 1915 ed il 1945.
    Bizzozzero nel 1869, con il tedesco Newman, riconosce per primo l'origine delle cellule del sangue nel midollo osseo e nel 1893, confer­mando la sua genialità, scopre e dà significato al terzo elemento figurato del sangue, che egli chiama piastrine, del quale descrive con accuratezza la funzione nel processo emostatico e trombotico. Con Newman Bizzozzero stabilisce tre regole fondamentali che governano ancora oggi l'Ematologia:

    La formazione del sangue è un processo continuo per cui durante tutto il corso della vita il sangue non smette mai di essere prodotto e distrutto.
    Il midollo osseo è l'organo che forma il sangue, l'officina in cui si produce.
    I globuli bianchi maturano nel midollo e conservano il loro nucleo passando nel sangue, i globuli rossi, maturan­do, perdono il loro nucleo nel midollo e quindi passano nel sangue.
    Adolfo Ferrata della Clinica Medica di Pavia è considerato il creato­re della scuola ematologica italiana, dalla quale sono derivate quasi tutte le attuali scuole italiane ed anche la nostra, attraverso il professor Breda allievo di Villa e Ferrata ed attraverso il compianto professor Ferrara, allievo, tra i prediletti, di Giovanni Di Guglielmo.
    Nel 1920 Adolfo Ferrata fonda il primo giornale italiano di Ematologia, Haematologica, attuale organo ufficiale della Società Italiana di Ematologia, che lo stesso Ferrata riunirà nel 1934 allo scopo di creare una coscienza ematologica tra i ricercatori italiani di tutte le branche della Biologia e della Medicina. Ferrata fu inoltre uno dei più convinti assertori della teoria unicistica sulla derivazione delle cellule del sangue, teoria che, riconosciuta ormai universalmente valida, è alla base delle possibilità di ripristino completo e duraturo della ematopoiesi mediante il trapianto di cellule progenitrici provenienti da midollo, e di qualsiasi terapia genica in grado di intervenire a livello della cellula staminale emopoietica. Ferrata chiamò questo cellula midollare emocitoblasto, esso corrisponde alla attuale cellula staminale emopoietica totipotente capace di dare origine sia alla linea mieloide che alla linfoide.
    Il concetto guida del mio discorso, sulla necessità di una continua e profonda integrazione tra biologia e clinica in Ematologia, è dunque già presente al sorgere di questa disciplina. È solo però in questo nostro periodo storico che le applicazioni cliniche della ricerca biologica diventano così rapide e le osservazioni cliniche influenzano così subitaneamente la ricerca biologica, che possiamo veramente dire che, in Ematologia, si stia realizzando quel circolo virtuoso tra ricerca biologica e osservazione clinica, che è la chiave del progresso medico.
    L'Ematologia clinica, d'altra parte, nasce in alcune nazioni nell'ambito della Patologia Generale ed anche quando, come in Italia, è figlia della Medicina Interna, ne è figlia da quel ramo che ha sempre più prepotentemente sentito i legami con il sapere biologico.
    Ma fino a 40 anni fa, la pratica impossibilità di intervenire sulla malattia ematologica, sia essa di tipo proliferativo, come le leucemie e i linfomi, sia da difetto di produzione, come l'anemia aplastica e i difetti di fattori della coagulazione, aveva fatto dell'ematologo, anche di origine clinica, solo un attento osservatore, spesso un esperto morfologo legato al microscopio, attento alle forme ed ai colori, un acquerellista esoterico, come Jean Bernard, il grande ematologo accademico di Francia, definisce il Ferrata, che amava creare nuove parole per aspetti cellulari, che egli stesso a volte creava nel suo laboratorio, combinando i coloranti più diversi.
    Questo tipo di ematologo, pur soddisfatto della bellezza e della minuziosità delle forme, che descrive con compiacimento, è spesso inefficace.
    Fino al 1930 l'unica terapia valida in Ematologia è il ferro, conosciuto dai tempi di Galeno. I pazienti con linfogranuloma di Hodgkin inesorabilmente muoiono, le leucemie sono costantemente fatali, l'ane­mia perniciosa rimane perniciosa, l'emofilia uccide i bambini delle fami­glie nobili come di quelle plebee.
    Un primo grande progresso avviene nella anemia perniciosa con la scoperta del fattore intrinseco di Castle, che fa comprendere i rapporti tra achilia gastrica e l'efficacia del fegato crudo; i folati saranno identificati nel 1940 e la vitamina B12 sarà sintetizzata nel 1948. Le ricerche e la vittoria sulla anemia perniciosa rappresentano un punto di svolta dopo il quale l'ematologia non sarà più solo morfologia, ma una disciplina dina­mica su basi fisiopatologiche.
    La gravità delle malattie da curare, le leucemie, i linfomi, spinge l'ematologo alla fine degli anni quaranta, a terapie coraggiose e spesso empiriche con vittorie insperate e disfatte inattese.
    Nel 1948 Jean Bernard introduce l'exanguino trasfusione nella tera­pia delle leucemie ed ottiene la prima momentanea remissione. Nello stesso anno Farber, spinto dalla osservazione che l'acido folico aumenta­va l'incidenza di alcune leucemie del topo, introduce l'uso, nella leuce­mia linfatica acuta del bambino, di un antagonista dell'acido folico il Methotrexate, usato ancor oggi.
    Egli ottiene una remissione completa della malattia, che induce però gli scettici a pensare che non di leucemia si trattasse.
    Incomincia l'epoca delle terapie antiblastiche e si dimostra, in ema­tologia e per la prima volta, la possibilità di poter cambiare la storia natu­rale di una malattia tumorale con trattamenti medici.
    Negli ultimi quaranta anni l'introduzione di nuovi antiblastici e di più efficaci terapie supportive ha portato le guarigioni delle leucemie del bambino a più del 50%, e a più del 20% le guarigioni delle leucemie del­l'adulto. Inoltre il 70% dei pazienti con linfogranuloma di Hodgkin e il 40% dei pazienti con linfomi non Hodgkin possono guarire con tratta­menti radianti o con chemioterapie. Ci sono stati dunque indubbi pro­gressi, ma questi, ben lungi dall'esaltare l'orgoglio dell'ematologo, ne accentuano le responsabilità, da cui una inquietudine profonda che può essere matrice di scoperte future.
    Da alcuni anni siamo infatti in un periodo di stallo nei trattamenti tumorali classici. Ne è ipotizzabile che gli antiblastici attualmente in uso, la maggior parte dei quali con una azione antiproliferativa aspecifica, e con pesanti effetti collaterali, possano portare ad ulteriori e sostanziali avanzamenti terapeutici. Occorrono nuove classi di farmaci, che pur si intravedono da alcuni spettacolari successi in specifiche patologie tumo­rali.
    La leucemia acuta a promielociti, forse la forma di leucemia più temibile fino a poche anni fa per il suo decorso rapidamente fatale, sta diventando la forma leucemica a prognosi migliore, dopo la introduzione di una nuova classe di farmaci derivati dall'acido retinoico, parente stret­tissimo della vita A.
    L'introduzione dell'acido transretinoico nella leuce­mia acuta a promielociti è un esempio paradigmatico dei vantaggi, che la stretta collaborazione tra ricerca clinica e biologica apporta. La sua storia, avendola anche noi in questi anni vissuta, pensiamo bene raccontarla.
    Tra le leucemie acute, la forma a promielociti acquisisce una sua individualità clinica alla fine degli anni sessanta, per la spiccata sindrome emorragica che conduceva a morte la maggior parte dei pazienti nei primi giorni di malattia.
    Negli anni settanta, l'uso degli antraciclinici, preconizzato da Jean Bernard, ed il migliore controllo della sindrome emorragica, ottenuto dalla nostra scuola con l'indroduzione delle antiproteasi e degli steroidi, dimostrano che questa forma di leucemia può andare in remissione con frequenza superiore e con maggiori probabilità di guarigione delle altre forme.
    Già da questo momento dunque gli ematologi europei, francesi ed italiani soprattutto, considerano la leucemia promielocitica una forma cli­nico-morfologica particolare di leucemia acuta, da trattare in maniera propria.
    Bisogna attendere il 1984 perchè il gruppo della Rowley dimostri la particolarità biologica della leucemia a promielociti scoprendo la costan­te presenza di una traslocazione tra il cromosoma 15 ed il 17.
    Fino alla fine degli anni 80 domina un dogma nella terapia delle leucemie, la remissione e la guarigione conseguente possono essere otte­nute solo distruggendo completamente le cellule leucemiche.
    Esperimenti in vitro però, negli anni 80, avevano dimostrato la pos­sibilità di ottenere una normale maturazione di alcune linee cellulari leu­cemiche, simili alla leucemia a promielociti, con l'aggiunta di sostanze differenzianti tra le quali l'acido retinoico. In clinica erano stati riportati isolati casi di remissione completa di leucemie acute a promielociti dopo trattamenti con acido cis-retinoico.
    Una scoperta spesso è figlia, oltre che della fantasia creativa, del caso e di circostanze fortunate che si innestano nel fertile terreno semina­to dalle riflessioni su precedenti ricerche. Le circostanze fortuite o fortunate nel caso dell'impiego dell'acido transretinoico nella leucemia acuta a promielociti furono:

    Un viaggio a Parigi, offerto dall'Air France a un professore cinese di Ematologia, Wang Zhen Yi, per una visita all'Hopital Sain Louis, tempio della Ematologia Francese;
    problemi finanziari della sanità cinese, che non era in grado di sopportare le spese per i costosi farmaci antiblastici antraciclinici;
    Gli ostacoli posti da alcune industrie farmaceutiche occidentali alla distribuzione di acido trans-retinoico, che invece era facilmente disponibile in Cina.
    La mentalità cinese inoltre, da sempre disposta a trasformare il nemico piuttosto che annientarlo, favoriva i trattamenti tumorali intesi a determinare la maturazione dalle cellule leucemiche piuttosto che la loro morte. Il gruppo cinese di Wang Zhen Yi ottenne 23 remissioni complete su 24 pazienti con leucemia acuta a promielociti primitivamente trattati con acido retinoico. La remissione veniva inoltre ottenuta, senza attraversare la fase di aplasia midollare, per maturazione delle cellule leucemiche. La maturazione della cellula leucemica era deducibile da molti aspetti ma appare incontrovertibile in casi come quello giunto alla nostra osservazione, che dimostra la persistenza di un corpuscolo di Auer, segno patognomonico di leucemia mieloide, in un granulocita per altro maturo.
    L'acido retinoico migliora inoltre la sindrome emorragica riducendo l'attività fibrinolitica e procoagulante dei blasti leucemici, come noi abbiamo recentemente dimostrato, e quindi rende più semplice, meno drammatico e con poche necessità trasfusionali, il trattamento della Leucemia a promielociti. Come spesso avviene per una scoperta clinica, questa dell'acido retinoico ha generato un notevole progresso nella citogenetica e nella patologia molecolare.
    Si è visto, in particolare, che la traslocazione tra il cromosoma 15 ed il 17 corrisponde alla formazione di un gene di fusione tra il gene PML e il gene recettore dell'acido retinoico RAR-Alfa. Il gene di fusione è responsabile della trascrizione di una proteina che impedisce la maturazione cellulare, onde l'arresto maturativo allo stadio di promielocita.
    L'interscambio tra ricerca biologica e attività clinica ha dunque dato il massimo dei suoi effetti in questa patologia, l'analisi dei risultati del trattamento ha condotto alla comprensione del meccanismo di leucemo genesi e a sua volta la conoscenza della leucemogenesi ha suscitato speranze di miglioramenti terapeutici.
    Se nel caso della leucemia a promielociti, l'acido retinoico associato alla chemioterapia risulta essere il migliore trattamento per raggiungere la guarigione della malattia, ormai possibile in più del 50% dei casi, nelle altre forme di leucemia è il trapianto di midollo allogenico ad offrire le migliori prospettive.
    Il Prof. Donald Thomas, il padre dei trapianti di midollo, che amo considerare tra i miei maestri, avendo frequentato la sua scuola di Seattle nel 1983, ha ottenuto nel 1990 il premio Nobel per la Medicina. È una delle poche volte che questo premio, così ambito, sia andato ad un ricercatore essenzialmente clinico.
    Credo che il premio sia stato dato a Thomas non tanto per i benefici immediati che le terapie trapiantologiche avevano portato ai pazienti trattati, quanto per lo sviluppo che il trapianto di midollo ha arrecato alla comprensione dei fenomeni inerenti la biologia della cellula staminale emopoietica, e l'immunologia dei trapianti.
    Infatti il particolare modello chimerico del trapiantato di midollo, in cui il nuovo sistema immunitario acquisito dal donatore convive con tutti gli organi del paziente ricevente, è servito a chiarire molti dei problemi immunologici comuni a tutti i trapianti d'organo.
    E ripercorrendo la storia del trapianto di midollo, vedremo che anche la realizzazione di questo tipo di terapia precede la comprensione del problema immunologico, a conferma del dinamismo disperato che ha deciso molte volte gli interventi dell'ematologo moderno.
    Dal 1950 si sapeva che la morte da irradiazione corporea totale poteva essere prevenuta schermando nel topo parte del midollo osseo, che poi riscostruiva la funzione ematopoietica normale. Si vide poi che la stessa funzione poteva essere restaurata iniettando per via venosa del sangue di origine midollare, che poi mirabilmente andava a colonizzare il midollo distrutto.
    Nel 1958 a Vinca, in Jugoslavia, avvenne una piccola Chernobyll: 6 medici vennero incidentalmente esposti ad alte dosi di radiazioni e divennero pancitopenici.
    La disperazione del caso indusse il francese Mathè ad eseguire in essi le prime infusioni di midollo osseo. In quattro casi fu messo in evi­denza un attecchimento seppur momentaneo, ma anche l'insorgere di una reazione da trapianto verso ospite, che determinava lesioni cutanee e del sistema gastroenterico, simili a quelle già viste in patologie autoimmuni. Fu però solo con la scoperta del sistema HLA, che diede a Dausset il premio Nobel, nel 1965, che si rende pienamente attuabile il trapianto di midollo. Si vede infatti che l'attecchimento stabile è possibile e la rea­zione del trapianto verso l'ospite limitata, quando si trapiantano soggetti HLA identici, come lo sono sempre i gemelli monocoriali e mediamente il 25% dei fratelli germani.
    Le prime esperienze di Thomas, dimostrano, negli anni 70, che un piccolo gruppo di pazienti leucemici, resistenti alle comuni chemiotera­pie, poteva essere salvato con una radioterapia eradicante, seguita da trapianto di midollo HLA identico. Da allora sono avvenuti molti progressi di ordine clinico e biologico, e si è assistito ad un notevole incremento del numero dei trapianti effettuati e delle indicazioni al trapianto. Queste coprono, oltre le tipiche malattie proliferative quali le leucemie e i linfo­mi, anche le malattie da difetto di produzione, acquisite come le aplasie, o congenite come le talassemie.
    Sono migliorate le terapie supportative trasfusionali grazie anche all'introduzione di apparecchi per la aferesi, che selezionano le cellule del sangue da prelevare; sono stati introdotti nuovi farmaci, come i fattori di crescita, che ci danno la possibilità di stimolare la produzione dei globuli rossi, dei globuli bianchi e delle piastrine o come la ciclosporina, che ci permette di dominare le reazioni immunitarie, che lo stesso midol­lo trapiantato provoca nell'organismo ospite.
    La malattia da trapianto verso ospite la cosidetta GVH ovvero Graft Versus Host, causata da un atto terapeutico, ci ha aiutato a capire la pato­genesi di alcuni sintomi, comuni nei pazienti trapiantati e che si ritrovano sovente in malattie autoimmuni quali il LES, il penfigo e la scleroder­mia. Ma la "graft" non provoca solo effetti negativi, esiste un effetto del midollo trapiantato contro la leucemia, la graft versus leukemia, che ci fa capire l'importanza della sorveglianza immunitaria sul tumore.
    La migliore caratterizzazione del sistema di istocompatibilità ha ridotto l'incidenza della malattia da trapianto verso l'ospite, e ha reso possibile il trapianto di midollo tra persone non consanguinee ma aventi uno stesso sistema HLA. Attualmente nel mondo abbiamo circa un milione di persone tipizzate come donatori volontari di midollo.
    Il trapianto di midollo infatti è l'unico che possa essere fatto da vivente a vivente senza alcun danno per il donatore. In effetti il dono essenziale non è quello di un organo ma quello di una cellula, capace di autoduplicarsi, la cellula staminale emopoietica, origine di tutte le cellule del sangue, che alberga prevalentemente nel midollo ma non solo in esso. Essa circola anche nel sangue periferico, tant'è che tenendo due animali in parabiosi, cioè con una circolazione del sangue comune, uno degli ani­mali può subire una panirradiazione senza danni midollari irreparabili, essendo il suo midollo rifornito di cellule staminali da quello dell'altro.
    La cellula staminale emopoietica raggiunge nel sangue concentra­zioni superiori a quelle del midollo dopo la somministrazione di fattori di crescita, resi di recente disponibili dalla ingegneria genetica.
    Si può quindi ripopolare un midollo distrutto, un midollo malato, che non produce o produce male, trasfondendo cellule del sangue perife­rico. Pochi milioni di cellule progenitrici selezionate, contenute in una piccola provetta sono in grado di ripristinare in meno di 2 settimane la funzione emopoietica midollare distrutta.
    La cellula staminale emopoietica presente nel midollo, e nel sangue periferico, alla nascita si ritrova in abbondanza anche nel sangue di cor­done ombelicale. Il bambino che nasce ha un surplus di cellule staminali emopoietiche, che potranno essere utili a lui stesso o, conservate per qualcuno magari già nato che soffre di leucemia, di aplasia midollare, o di una malattia genetica. Ho detto che le cellule staminali emopoietiche del cordone potranno essere utili anche allo stesso bambino che nasce.
    Nel caso che esso sia portatore di un difetto congenito dovuto a una patologia di cellule di origine ematogena, quale per esempio l'anemia mediterranea, la drepanocitosi, le malattie da difetto enzimatico dei monociti o dei linfociti, è ipotizzabile, in un futuro che è già incomincia­to, la ricostruzione del gene difettoso nella cellula staminale emopoietica presente, alla nascita, nel sangue del cordone. I primi tentativi di corre­zione genetica del difetto di adenosina deaminasi linfocitaria, la cui carenza provoca una grave sindrome di immunodeficienza congenita, sono stati già effettuati su cellule staminali di cordone con esito positivo.
    La possibilità di correzione del difetto genetico alla nascita o addi­rittura in utero con trapianto di cellule staminali emopoietiche modificate è naturalmente per noi cattolici di importanza ancora maggiore per il rispetto della vita fin dal suo sorgere, che ci caratterizza.
    Il supporto scientifico, che una Facoltà di Medicina di ispirazione cattolica, è chiamata a dare in questo campo per sostenere le nostre con­vinzioni più profonde è fondamentale e da solo, penso, giustifica gli sfor­zi che i Cattolici sono chiamati a compiere per una loro Facoltà di Medicina. L'aver toccato le malattie ereditarie mi induce ad avventurarmi, sep­pur brevemente, in un campo particolarmente caro alla nostra scuola.
    Le malattie della coagulazione del sangue, che predispongono alle emorra­gie o alle trombosi, sono, per la maggior parte di origine, ereditaria e quindi potenzialmente suscettibili di trapianto genico. Esse sono un esempio di come la clinica guidi la ricerca biologica e come dalla patologia sia possibile risalire alla fisiologia. La maggior parte dei fattori della coagulazione sono stati scoperti in quanto carenti in determinati soggetti. La distinzione tra Emofilia A ed Emofilia B e quin­di tra Fattore VIII e IX è stata fatta dal clinico che, semplicemente incro­ciando 2 plasmi di soggetti con malattie apparentemente uguali, notava la correzione del difetto coagulativo.
    Negli anni in cui, il biochimico e il biologo molecolare sintetizzava­no e ci davano la sequenza aminoacidica dei fattori della coagulazione, era sembrato che l'opera del clinico di stimolo alla ricerca stesse, in questo campo, sparendo. Non è stato così, ed a dimostrazione, mi piace riportare il susseguirsi delle scoperte nel campo delle trombofilie fami­liari.
    Howell nel 1933 aveva parlato di sostanze che impediscono che il sangue circolante coaguli. Nel 1956 si comincia a parlare di trombofilie familiari dovute probabilmente ad un difetto di inibizione della coagula­zione. Nel 1965 Egeberg scopre il primo caso da difetto di antitrombina III, il più importante inibitore della coagulazione. Il nostro gruppo scopre il primo caso familiare italiano nel 1975.
    Negli anni successivi nuovi difetti di sostanze naturali che inibisco­no la coagulazione, quali la Proteina C e la Proteina S, vengono scoperti. Il problema sembra farsi sempre più di ordine biochimico e sfuggire al clinico, che però continua a notare trombofilie sicuramente familiari senza un difetto coagulativo conosciuto.
    Nel 1993 Dalbhack con un test molto semplice, alla portata di un qualsiasi laboratorio clinico, mette in evidenza nel 20% dei soggetti con trombofilia un difetto di inibizione della coagulazione, non da carenza di inibitore, ma da resistenza all'azione di uno degli inibitori: la proteina C. Questo difetto si ritrova in un'alta percentuale di soggetti apparentemente normali e influenza il verificarsi delle trombosi venose più comuni quali quelle operatorie o quelle durante il trattamento con pillola estroprogestinica.
    Il biologo molecolare scoprirà poi che la resistenza alla proteina C in effetti è un difetto genetico che conduce alla produzione di un Fattore della coagulazione anomalo, il Fattore V Leiden, che una volta attivato, non potendo essere inibito, continua nel suo effetto protrombotico oltre misura.
    La storia si ripete dunque continuamente, attività clinica e ricerca biologica si rincorrono e si compenetrano. La sintesi a volte avviene in laboratorio con la produzione di un animale transgenico che, privato di un gene deputato alla produzione di un fattore di crescita emopoietico, nasce e rimane leucopenico, prova vivente della funzione fisiologica di quel fattore di crescita. Altre volte avviene in clinica, dove un soggetto leucemico, recidivato dopo trapianto di midollo, viene reindotto alla remissione con la sola infusione di linfociti del donatore, dimostrando inequivocabilmente il controllo immunologico del tumore.
    Certamente la riconquista di un linguaggio comune tra biologi e clinici è il fatto culturale, in ambito ematologico, più importante di questi ultimi anni, che ci fa ben sperare per nuove riunificazioni del sapere medico, che l'ampiezza delle nuove conoscenze tende inevitabilmente, per altri versi, a settorializzare. Questo concetto mi sembra valido anche dal punto di vista didattico: il distacco dalla Medicina Interna di alcune aree specialistiche, quale quella delle malattie del sangue, stabilito nella recente riforma della Facoltà di Medicina, si risolverebbe in una pura perdita di organinicità, dell'insegnamento come dell'apprendimento, ove non fosse seguito da una riunificazione del sapere clinico e di quello biologico.

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  • Conferenza del 24 gennaio 2003

    1) LE DIETE E I DISTURBI ALIMENTARI:
    2) IL CAOS

    Prof. Michele CAMPANELLI

    24 gennaio 2003
    Il Prof. Campanelli ha incominciato con il richiamare l'attenzione sul fatto che il mangiare è un fenomeno ben più complesso della semplice assunzione di sostanze nutritive per espletare le nostre funzioni primarie.
    Il cibo implica un atto di amore, di aggressività, di autoaffermazione, è un modo di comunicare, di essere persona nella famiglia con gli estranei e nel mondo, quando questa rete di fenomeni perde il suo equilibrio, si registra una regressione con l'oggetto "cibo".
    E così il cibo può diventare il persecutore da cui bisogna guardarsi come pericoloso ed ossessionante o, al contrario, l'elemento dal quale si ricerca, in modo esagerato, la soddisfazione - non trovata altrove -, perché solo così se ne realizza il controllo placando la propria angoscia.
    L'Anoressia nervosa e la Bulimia nervosa sono disturbi dell'alimentazione che esordiscono nell'età adolescenziale o nella prima vita adulta; del primo disturbo soffre all'incirca l'1% delle giovani (abbiamo usato il femminile in quanto è raro veder un disturbo alimentare soprattutto anoressico in un individuo maschio).
    Da tali, manifestazioni sarebbe opportuno distinguere l'obesità che è solo un disturbo fisico, sebbene con risvolti psicologici, ma che non ha nulla a vedere con una chiara sindrome psichica e comportamentale, e quelle forme "border line" dove il soggetto è solamente preoccupato per il suo corpo e per gli aumenti ponderali di esso.

    Anoressia nervosa

    È un disturbo dell'alimentazione con un'intensa paura di diventare grassi o di eccedere nel peso corporeo. A livello di immagine del proprio corpo si registra una vera e propria alterazione dell'autopercezione non adeguata alla realtà (il soggetto di solito si sente sovrapeso quando in realtà è severamente sotto la norma), la preoccupazione per il proprio peso diventa eccessiva e la riduzione della assunzione del cibo può essere totale. Nella maggioranza dei casi compare amenorrea, sovente ancora prima di un eccessivo calo ponderale.
    Nella quasi totalità i soggetti con tali disturbi alimentari difficilmente accetteranno razionalmente di prendere coscienza delle gravità della loro malattia, e spesso meccanismi inconsci porteranno a mantenere il sintomo (si lotta contro la guarigione perchè il comunicare un disagio o il potere ottenuto in un contesto familiare potrebbero venir meno?).

    Bulimia nervosa

    Caratteristica essenziale della bulimia nervosa è l'eccessiva e rapida assunzione di enormi quantità di cibo, con frequente induzione di vomito. Esiste tutto un cerimoniale nelle "abbuffate" spesso sono pianificate in gran segreto, e consumate molto rapidamente, la scelta per il cibo è quasi sempre per alimenti altamente calorici e dolci, in ultimo il vomito viene prepotentemente cercato come liberatorio dallo stato di tensione.
    Nei bulimici sovente è ben presente il problema che il loro vivere sia gravemente influenzato da problemi alimentari. Statisticamente molto più frequente dell'anoressia si situa nella popolazione adolescenziale e giovanile intorno al 4.5 % per le femmine nettamente inferiore o quasi assente nei maschi (si parla di una distribuzione intorno allo 0,4%).

    INTERVENTI TERAPEUTICI

    Alla base del malessere di entrambe le manifestazioni(anoressia/bulimia nervosa) troviamo sempre il senso di frustrazione narcisistica dovuto all'impossibilità di realizzare il controllo sull'oggetto d'amore, il cibo diventa un "sostituto" di tale oggetto.
    Solo risalendo alle cause che hanno determinato tale disturbo possiamo portare in superficie i conflitti irrisolti , si tratta di individuarne il fattore eziologico che sta alla base, ed è nella chiarificazione di tali meccanismi la chiave della risoluzione del problema.
    Il comportamento patologico alimentare è correlato quasi sempre a turbe psichiche, per cui l'intervento non deve essere mirato al sintomo, ma deve rivolgersi alle cause che stanno ala base del disturbo. L'approccio per affrontare questo tipo di problema può essere duplice:

    l'uno riguarda l'aspetto farmacologico (numerosi studi hanno dimostrato l'analogia con malattie diverse come la depressione o la dipendenza con analoghe indicazioni terapeutiche) e dietetico, portando il paziente obeso a consumare di più di quanto introduca, e dimagrisca di conseguenza (oppure il procedimento inverso nell'anoressia);
    l'altro sistema sta nel tentativo di far balenare davanti agli occhi del paziente il potenziale "caos" che l'abuso dei suoi problemi alimentari, nel tentativo di risolvere altre conflittualità della sua persona, può condurlo. Di conseguenza si tratta di provocare un cambiamento nella persona e cioè nell'individuo stesso.
    Da ciò si evince la necessità di un approccio psicoterapico nelle sue più svariate forme da quello cognitivo-comportamentale, al sistemico-relazionale a quello psicoanalitico sia rivolto al singolo soggetto che all'intero nucleo familiare, ed anche a gruppi di discussione, autoaiuto e sostegno fra persone con disturbi simili.
    La scelta del metodo migliore, dipende spesso dalle circostanze del caso individuale, e dalla volontà sia del soggetto che dei familiari a lasciarsi coinvolgere, un malato del genere infatti, ha soprattutto bisogno di aiuto ed incoraggiamento per diventare conscio degli impulsi, pensieri e sentimenti che nascono in lui; solo così può imparare a scoprire le proprie risorse non sviluppate e ad ascoltare quando accade dentro di lui. Tutto questo è soprattutto indispensabile per non lasciarsi risucchiare dal caos e, al contrario, sviluppare autonomia, iniziativa e responsabilità della propria persona.
    Vedi anche MICHELE CAMPANELLI, Viaggio all'interno del disturbo alimentare. Ed. Titano, 1994.

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  • Conferenza del 17 gennaio 2003

    IL BELLO È NEGLI OCCHI

    Prof.ssa Luciana FINELLI

    17 gennaio 2003
    Poniamoci anzitutto la domanda di rito: cosa è "il bello"? Sarebbe troppo facile uscirsene con il detto corrente "non è bello quel che è bello, è bello quel che piace". Questo in realtà è un escamotage che chiede una vera risposta, mentre scarica il soggetto da qualsiasi responsabilità critica. A seguito di tutto quello che l'Arte ha già prodotto nei secoli passati, e anche nel periodo contemporaneo benché discusso, possiamo oggi dire, con buone probabilità di essere nel giusto, che "è bello quel che è bello": vale a dire che esistono in ogni tempo dei parametri di valutazione, ancorché mutevoli, che consentono di monitorare abbastanza rigorosamente la produzione artistica "valida", separandola da quella soggetta al gusto personale, spesso (perdonatemi) ineducate alla comprensione di un mondo interiore e fantastico che è il mondo degli artisti.
    Vi sono eccezioni: per esempio, nella pittura, a tutti quasi indistintamente risulta apprezzabile fino all'entusiasmo la produzione del Rinascimento e del Quattrocento perché tutti vedono quello che è. Un viso è un viso, gli atteggiamenti sono colti nel momento in cui l'artista fissa i movimenti: San Sebastiano si offre sempre allo sguardo legato alla colonna o con le mani dietro alla schiena, con le frecce confitte nelle carni senza manifestazione di dolore. La Madonna, seduta, esibisce il Bambino ed è quasi sempre rappresentata come una bellissima fanciulla, seria e tranquilla, spesso con il manto azzurro e la veste rossa, ricamata o meno: ricordiamo i supremi momenti del Beato Angelico e del Botticelli, per citarne solo due fra i tanti.
    Che direste se rivelassimo che anche questi dipinti sono "criptati", vale a dire che contengono significati percepibili solo dai conoscitori? Eppure è così: gli artisti del Rinascimento adoravano i rebus e i simboli e li disseminavano direttamente nella composizione in modo da renderla più segreta quanto più fosse evidente. Il dito che indica, le mani aperte, lo sfondo della natura negli interni con magari un brano di città all'orizzonte, il piede sinistro avanti al destro o viceversa, la collana di corallo del Bambino, l'ermellino, l'unicorno, il cardellino, un pomo nella mano, l'ornamento dei capelli muliebri con perle o con una cuffia, ecc. tutto ciò rappresenta per l'artista e per l'osservatore esigente tanti incentivi in più per esprimere e capire il linguaggio segreto delle forme e dei colori.
    E allora come la mettiamo? Sono "belli" solo quei quadri oppure siamo noi che dobbiamo educarci a "leggere" la verità vera dei messaggi diversi? Anche il grande Michelangelo aveva i suoi segreti e si firmava cripticamente in vari modi, invisibili e incomprensibili ai più: solo la Madonna della Pietà in San Pietro porta il suo nome per intero, scolpito sulla fascia che attraversa il petto della statua, opera meravigliosa che egli eseguì a soli ventiquattro anni.
    Occorre arrivare al XVIII secolo (1700) per avere tuttavia un quadro studiato e quasi scientifico del concetto di "bellezza". La declinazione più estesa del concetto di "bello" appartiene infatti al periodo del pre­romanticismo (fine settecento-primi ottocento) e viene accolta dal romanticismo pieno con enorme entusiasmo. Si propongono due termini distinti: il bello "sublime" e il bello "pittoresco", termini non esattamente contrapposti bensì sottilmente diversi. Protagonista di ambedue è, come nei secoli precedenti, la Natura: solo che per la poetica del Sublime essa dispiega all'uomo un ambiente duro e ostile e oppone l'individualità singola al mondo, generando sentimenti di solitudine, di tragicità dell'esistere, e facendo dell'uomo il prototipo dell"'eroe" sotto un aspetto squisitamente romantico. Sottolineiamo che stiamo parlando di sentimenti, cioè di percezioni dell'anima.
    La poetica del Pittoresco, invece, nasce insieme alla diffusione del giardino paesistico inglese, quel giardino cioè che nega risolutamente le soluzioni del cosiddetto giardino "all'italiana", con i suoi viali dritti, le aiuole geometriche bordate di bosso, le statue classicheggianti in marmo bianco, grandi vasi di aranci e di limoni, i boschetti pettinati e le fontane monumentali centrate sulle prospettive. Il giardino paesistico inglese presenta anch'esso, lo abbiamo detto, come protagonista la Natura, ma questa è una natura piacevolmente ondulata in collinette verdi e dolci avvallamenti, disposti ad accogliere sentieri campestri e sorgenti zampillanti dalle pietre, che si risolvono in ruscelletti spontanei scorrenti fra le erbe, o in tranquilli laghetti.
    Gli alberi (in genere grandi querce, alte betulle e imponenti conifere) sono raggruppati "a macchia" sulle alture o serrati gli uni accanto agli altri nelle pianure. È un'arte preziosa che si risolverà poi nell'urbanistica delle Città-Giardino, arte che non "rappresenta" ma "modifica" la Natura rendendola essenzialmente non ostile, una volta adattata ai sentimenti umani e alle opportunità della vita sociale, costituisce se stessa ad ambiente per la vita, divenendo vagamente "consolatoria".
    Sembra una contraddizione ma non lo è: la poetica del Sublime, concordemente riconosciuta come pre-romantica, addita come supremi modelli, in pittura scultura e architettura, le forme classiche e costituisce uno dei fondamenti del Neo-classicismo. Gli artisti del periodo, rispondendo a una sensibilità nuova, assumono nei confronti dell'arte classica un atteggiamento romantico, vale a dire un atteggiamento sentimentale e morale che si fonda sui grandi valori dell'esistenza, il destino, la morte, traguardo terreno dell'uomo ed esaltazione della sua grandezza.
    L'apparente contraddizione tra classico e romantico viene intuitivamente sciolta allorché si pensi ai capolavori della musica contemporanea al neoclassicismo: infatti, se Ludwig van Beethoven è notoriamente un classico, egli è anche il principe, e il più autorevole, dei romantici. Fra l'immensa sua produzione ricordiamo la Terza Sinfonia, l'Eroica, appassionata celebrazione di Napoleone Primo Console (1802), dedica poi rinnegata al momento dell'ascesa al trono dell'Imperatore (1804), solenne performance della concezione comune della figura dell'Eroe: vale a dire non il despota potente, ma il disinteressato alfiere del riscatto dell'uomo, corazzato dall'usbergo di virtù e sapienza.
    Alla base della drammaticità dello scontro sta il conflitto tra la immobilità statica della tradizione classica e le geniale dinamicità dello spirito nuovo, configurato dall'ideale romantico, gravido di movimento e contrapposto a quello classico, eternamente rispecchiato dall'immagine della continuità di se stesso. Conflitto caratterizzato dal dualismo libertà/obbligo; caratteristica dell'ideale classico è. infatti la "regola" (o "cànone"); la problematica che ne deriva da questo conflitto e del tutto nuova e finalmente "moderna", in quanto contempla due concetti emergenti: quello di "progresso", generato dalla successione delle conquiste soprattutto scientifiche e tecnologiche, che suggellano l'orizzonte dell'uomo tramite la sua ingannevole emancipazione finale (oggi lo possiamo dire); e quello ad esso conseguente di libertà, il più peregrino dei vocaboli del Moderno ma certo il più coinvolgente, mitica parola che sancisce l'approdo a una condizione umanitaria totalizzante in cui i cronici mali del passato si sarebbero risolti in una auspicata umanità futura. Parola adottata da tutti gli spiriti svegli a partire dai primi decenni dell'Ottocento fino ad oggi, proviene anch'essa dal movimento romantico dei filantropi e degli umanitaristi che in vario modo, e ciascuno nel proprio campo, avevano precorso le esaltanti tappe del Moderno in fieri. Ricordo a questo proposito lo splendido sviluppo musicale e vocale del "Viva la Libertà" nel Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart.
    L'ideale neoclassico/romantico non nasceva tuttavia dal nulla e non era del tutto nuovo: infatti esso proveniva da un grandioso precedente che scaturiva nientemeno che dall'antica Grecia e precisamente dall'età di Pericle (V secolo a.C.). In quell'età fortunata la filosofia greca coniava un termine adatto a definire il significato di quell'arte eternamente giovane, termine che non è una brutta parola come sembra, ma è comprensivo di due concetti abbinati e strettamente correlati: si chiama "kalokagathìa", che vuol dire "bellezza + bontà", e deriva da due aggettivi folgoranti, kalòs (bello) e agathòs (buono), cioè "ciò che è bello è anche buono"; quindi un significato di natura estetica (bello) unito a un altro di natura morale (buono). Questo precedente venne conosciuto a fondo dagli studiosi, soprattutto tedeschi, proprio in età romantica e fu applicato dagli artisti, principalmente dai pittori inglesi cosiddetti "pre-raffaelliti".
    Poi venne temporaneamente abbandonato dalla coscienza collettiva. Fu rispolverato nel secondo dopoguerra, nel 1945, indovinate da chi? Sì, proprio dagli architetti italiani che si trovarono di fronte a un Paese distrutto, tutto da ricostruire. La parola d'ordine fu "date agli uomini una casa bella ed essi diventeranno più buoni". Ma era una "magnanima illusione": occorreva fornire dei buoni modelli validi per tutti e adatti a costruire in fretta, i mezzi erano pochi, i bisogni tanti e urgenti, la gente di provenienze diverse e con abitudini differenziate; inoltre le città avevano richiamato immigrati da tutte le campagne e i paesi; forse gli architetti, nel loro insieme giovani e pieni di generose intenzioni, erano impreparati a un compito così impegnativo. Il fatto è che i risultati degli anni '50 e '60 sono le periferie che noi vediamo in tutte le nostre città, dove l'avere inserito negli appartamenti un bagno confortevole produsse l'adozione della vasca da bagno a contenitore di piantagioni di basilico. Le diverse provenienze sociali venivano così in conflitto nell'àmbito più delicato dell'esistenza umana: la casa.
    Ma il "bello" che fine ha fatto? Forse, tirato da tutte le parti, ha cercato rifugio nell'organo che più lo rappresenta e cioè nell'occhio dell'uomo. Si dice comunemente che "l'occhio è lo specchio dell'anima": ma l'anima dove si trova? Quando ero piccola credevo che l'anima fosse un'entità misteriosa ma palpabile, a forma di fagiolo, situata press'a poco immediatamente al di sotto del cuore. Torniamo all'occhio e pensiamo un attimo al fenomeno della percezione visiva: in sezione l'occhio è un globo simile a una camera oscura (è il principio della fotografia); da una parte c'è la pupilla, forellino che si dilata e si restringe secondo la luce, munito di una "lente" retrostante, il cristallino; dall'altra parte, sulla parete ricurva verso l'interno, c'è la rètina, uno schermo circolare agganciato tramite la "coroide" al fondo dell'occhio; dal suo retro parte il nervo ottico che fornisce le informazioni al cervello. I raggi luminosi, passando per la pupilla e per il cristallino, si incrociano sul "fuoco" della lente all'interno della camera oscura: le immagini si formano, capovolte, sulla rètina la quale, tramite il nervo ottico le trasmette, raddrizzate, al cervello, obbedendo alla"posizione eretta".
    A questo proposito, avete fatto caso che i sogni, sia quelli ad occhi chiusi che quelli ad occhi aperti, procedono per immagini? E spesso anche il pensiero fa la stessa cosa, specie quando proponiamo a noi stessi un'azione da compiere che ci sta a cuore? Ecco: il cuore. Cuore e mente sono strettamente legati e vanno di pari passo, proiettando l'apprezzamento del bello sugli affetti, in modo da amare la bellezza. Sì, anche la dibattuta Arte Moderna, con i suoi scarti e la sua apparente enigmaticità, celebra lo stesso mito e tende al riscatto dell'umanità, forte di quei principi che abbiamo imparato dall'Ottocento ed esposti all'inizio di questa conversazione. Ma il nocciolo è molto più antico ed è situato nel fondo della Storia. Dice il Salmista: "Io sono fatto in modo meraviglioso. Tu sapevi tutto di me fin da quando io stavo nel ventre di mia madre". Ed anche questa è bellezza incomparabile. Grazie.

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  • Incontro del 13 gennaio 2003

    EDUCARE ALLA LIBERTÀ

    Frau Maria Cristina HOERICHT
    Prof. GASPARE CARTA

    13 gennaio 2003

    La storia della salvezza comincia con un esodo all'insegna della libertà come emancipazione dalla schiavitù e finisce con la prospettiva della libertà dei figli di Dio.

    "Dio lasciò l'uomo in balia del suo libero consiglio" (Sir. 15, 14).

    "Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi" (Gal. 5, 1).

    Bene ha scritto F. von Schiller: "L'uomo è creato libero, è libero, foss'anche nato in catene".

    L'uomo non è definito dall'istinto, come invece l'animale. È sempre al di là di sè stesso, in modo a volte disordinato, sino a sognare di essere Dio. Nella storia, gli uomini, non hanno mai smesso di farsi divinizzare:

    dai re dell'antichità Ez. 28. 2; Atti 12, 22;
    alla dea Ragione dei rivoluzionari, fino a Stalin, che instaurò il culto a Lenin e poi il suo;
    le "stelle" di oggi, che suscitano intorno a sé una sorta di culto.
    La libertà senza la verità, si svela – come a teorizzato Jean Paul Sartre -, per colui che cerca di viverla, non come l'esaltazione suprema dell'esistenza, ma come la vanificazione della vita, come il vuoto assoluto, come la definizione della condanna: l'uomo diventa una passione inutile!

    La libertà: ... ho pensato ai papaveri perché sono fiori liberi, fiori che non possono essere recisi e posti in un vaso: muoiono subito! E possono vivere solamente in libertà fra spighe di grano o fili d'erba. Sono fiori delicati e sensibili. Non si possono "maneggiare". Eppure nella loro semplicità sono bellissimi. I papaveri gialli sono più belli di quelli rossi? Oppure, sono i rossi più belli di quelli gialli? Ogni papavero, così diverso l'uno dall'altro, è di per sé stupendo!... Sì, la libertà è come un campo di papaveri, non si può conservare: o la si vive o non c'è libertà!

    "Diceva Gesù a quei Giudei che avevano creduto in lui: "Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi" (Gv. 8, 31-32).

    L'uomo non è definito dalla sua natura animale, ma dalla sua libertà, aperta su una creatività senza limite:

    "L'uomo sorpassa infinitamente l'uomo", diceva Pascal;
    "Siate realisti, chiedete l'impossibile", proclamava uno slogan del 1968.
    L'uomo è costitutivamente aperto - San Tommaso parla di 'potenzialità obbedienziale' - ed è questa sua apertura illimitata la causa della sua delusione nell'immediato. Da un certo punto di vista non è possibile vivere, od amare, a poco a poco né a poco prezzo. L'amore se lo si comprende non chiede meno di tutto.

    Secondo l'adagio agostiniano: lo Spirito che ci ha creati senza di noi, per vincere la battaglia della libertà dai vari condizionamenti, ha bisogno del nostro aiuto e di una particolare consapevolezza dei valori.

    L'egoismo delude e rende più infelice dell'animale, il quale è ben definito nelle sue soddisfazioni e nelle sue lotte istintive.

    L'uomo si appaga "non di solo pane", ma di verità. "La verità non è una pietra preziosa che si può mettere in tasca, bensì un mare in cui si cade dentro e ci si immerge".

    Sì, la verità è come un mare che ci supera, ci precede e ci travalica: noi dobbiamo solo immergerci per essere bagnati e avvolti, ma noi non la possediamo, bensì ci è donata.

    Dove c'è libertà vi è operante lo Spirito del Signore. "Il Signore è lo Spirito e dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà" 2 Cor. 3, 17. Anche per questo, educare alla libertà, è educare alla verità, essendo, secondo la visione cristiana, due realtà delle quali una richiama l'altra in modo inscindibile.

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